Cristian Izzo e la sua interpretazione di Amleto…
Questa volta arriviamo senza sorprese perché il posto lo conosciamo già: il Polo artistico di Torre del Greco apre di nuovo le porte a Cristian Izzo per le prove generali dello spettacolo “Dell’impossibilità di dire che Rosencrantz e Guildenstern sono morti”, da lui scritto, diretto e interpretato.
Non sembrano abbastanza i posti a disposizione, tutti occupati tra l’altro, perché questo spettacolo Cristian lo porterà a Brno in Repubblica Ceca all’Accademia Janacek e dunque è questa l’unica occasione per vederlo. E alle cose che Cristian fa, orma lo abbiamo capito, vale sempre la pena essere presenti.
La stanza salone, quella adibita a teatro, questa volta lascia il palco all’attore; noi siamo seduti a guardare una scenografia che prevede un attaccapanni pieno di tuniche nere e il telo, che una volta è stato mare, ora pende dal soffitto per arrivare fino al pavimento davanti a noi, a coprire qualcosa che non si vede, ma che possiamo immaginare cosa sia se parliamo di Amleto.
Quando si chiudono le tende che fungono da porte, si spengono tutte le luci in sala, mentre se ne accende una sola sul palco.
“C’è un abisso tra noi e voi e lasciamo che ci sia…” è la voce di Cristian che sentiamo senza vedere. Un sussurro più che una voce, flebile, sofferta, quasi incomprensibile “Ricordati di me” e la musica va.
Voci, parole, frasi si sovrappongono come a nascondere pensieri profondi che si pensano senza poter essere rivelati. Cristian è un Amleto moderno, ma c’è un tempo per collocare un tale personaggio?
Le tuniche che erano parte della scenografia, diventano buffi e difficili tentativi dell’uomo di indossarli, come a testimoniare l’impossibilità di entrare dentro personaggi diversi, creare nuovi ruoli, o forse solo cercare quello che realmente siamo. Tutto questo mentre una voce in sottofondo parla, dice, afferma e allo stesso tempo non chiarisce nulla.
Perché Cristian ha avuto questa ulteriore genialità. In una rappresentazione senza altri personaggi , ha creato un miscuglio di registrazioni dove, con intonazioni diverse, detta i tempi del suo testo. E tutto quello che vuole dire, come potrebbe accadere ad un Messia che racconta la verità in un centro commerciale, lascia che le sue parole, forse di verità, si disperdano in una confusione di rumori. Si permette di “leggere” il famoso monologo che porta “all’essere o non essere” e questa diventa l’ulteriore beffa del giovane talento che rivela semplicemente “sappiamo quello che siamo, non quello che possiamo essere”.
Tutto lo spettacolo è dunque una confusione di suoni, parole, voci, rantoli e sofferenze. Noi vediamo di fronte solo quella persona, ma sappiamo che anche quello è un inganno. Non è solo, sono in tanti, siamo anche noi, è la storia di questo animale che si chiama uomo che sta cercando da sempre di capire quale deve essere il suo ruolo in questo periodo di passaggio che ci viene concesso. E per assurdo, sembra che più si vada alla ricerca di quell’essenza e maggiormente risulti impossibile da trovare.
“C’è una divina provvidenza anche nella caduta di un passero”.
“Se sarà oggi o domani non si sa.”
“Essere pronti è tutto”
E quando tutto sta per finire e noi restiamo immobili, lui batte con la mano sul microfono, come a precedere l’applauso che sarà o per darci il via o solo per concedersi un ulteriore tempo per riflettere su ciò che ha creato.
Quando ci sentiamo liberati dalla morsa con cui stringe il suo pubblico, l’applauso ce lo concediamo per noi stessi, per essere ancora una volta riusciti ad essere presenti a questa geniale follia creativa, a questo modo di fare teatro che “supera le spiegazioni, perché non c’è niente da spiegare e se se ne dovessero dare (di spiegazioni,) sarebbe un fallimento”.
Ecco: Cristian è tutto questo. Fino a due minuti prima ti ha lasciato senza ossigeno, con il cervello a folle e poi all’improvviso diventa uno da cabaret. Racconta di come questo spettacolo abbia radici in uno precedente, Scarrafunera, e coglie l’occasione per salutare Diego Sommaripa, presente in quello spettacolo e anche in sala, e poi “Io sono il motivatore, non ho molto da fare e posso pensare. Non ho una famiglia anche se sono stato generato” e via di questo passo e a noi risulta difficile scoprire se il vero attore è quello sofferente dell’Amleto o questo qui che, con una mano nei capelli, ci spiega come abbia fatto ad arrivare in Europa “Gli ho spiegato tutto in inglese, ma evidentemente non mi hanno capito per questo mi hanno preso!”
Poi i saluti ai compagni di sempre Alessandro Verdoliva, Salvatore Torregrossa, al Polo che gli ha permesso di lavorare isolato dal mondo “come piace a me”.
Poi passa al cappello. Vi spiego. Prima di entrare in sala abbiamo visto un tavolino con su un cappello rovesciato e un invito ad un’offerta visto che l’ingresso era gratuito. E dunque il suo invito è chiaro: “Vi chiediamo soldi senza chiederli (e infatti non ci danno niente). È un mese che sto chiuso qui dentro per sette ore al giorno a parte la benzina per spostarmi da Castellammare, cosa dovevo chiedervi come biglietto?” Anche queste sono riflessioni “sull’impossibilità di fare teatro, perché è impossibile pagare gli affitti.”
Ma Cristian non è uno che si ferma davanti alle difficoltà, lui ha bisogno di fare cose che in realtà la gente ha bisogno di vedere: come “versare un po’ d’acqua su un seme che sta germogliando.”
L’ultimo saluto, dopo Francesco Esposito per le scene e i costumi è per Luca Longobardi: “è il grafico più bravo d’Italia, io ho un’idea e lui me la trasforma in locandina. Ma l’ho conosciuto a 16 anni e adesso non può chiedermi soldi”. E anche qui ci lascia un consiglio: i giovani talenti scopriteli subito, prima che abbiano successo.
Queste parole io le riporto a Cristian. L’ho conosciuto due anni fa, la sua bravura era ed è palese. Parlargli è come avere a che fare con uno di quei prismi che riflettono la luce scomponendola in tantissimi colori perché tra la profondità del suo pensare e la leggerezza con cui sa trasformare la dura realtà in battute comiche, non sai mai di fronte a chi sei veramente. Cristian è sorpresa, è pensiero, è maturità, è sociale, è politica, è poeta, è filosofia, è ricerca, è curiosità, è morale. Noi continuiamo a definirlo genio, forse perché non sappiamo riconoscere che queste qualità dovrebbero appartenere a ognuno di noi in maniera molto naturale e invece ci perdiamo dentro tutto quello che è il contrario di quanto serve per vivere.
Perché in questo modo dovremmo impiegare le nostre esistenze, tendendo ad un miglioramento interiore e non materiale. Ma abbiamo confuso le priorità e ci siamo trovati “nell’impossibilità di credere che la vita vada vissuta e non subita”.
- Il lungo tappeto blu
- Associazione Cuba World, oasi sociali di crescita