Migrazioni
Questo racconto è nato quasi un anno fa e aveva destinazione diversa. Poi, rileggendolo, mi sono accorta che è ancora troppo attuale, forse lo sarà per molto e per questo arriva tra i foglietti… Ringrazio mio fratello Carmine per la foto. Non gli ho chiesto il permesso ma il titolo, “Via di fuga apparente” e la bellezza della scatto mi hanno “obbligata” ad impossessarmene. Mi perdonerà, lo so.
Voglio avere un foglio di quaderno come compagno. Non credo che nient’altro o nessun altro possa affrontare questo viaggio con me.
Persone non ne ho, le lascio qui, sotto queste macerie, dentro questi rumori, vicini alle mie radici. Cose non me ne servono, in realtà non ne ho più. E in fondo sono proprio le “cose” che mi hanno messo in cammino. Le “cose” degli altri però, le “cose” in più che gli uomini cercano. Ma ora è presto per parlare di loro.
È un’ora che non appartiene più alla notte, ma ancora non ha visto il giorno. È il tempo sospeso come sospeso è il tempo che vive la mia vita. La mia vita. Come doveva essere diversa la mia vita! Ma in fondo perché lo penso? C’è un disegno dentro il quale entriamo? O abbiamo un pennarello con il quale disegnare?
Anche per queste domande è presto. Sono dubbi che richiedono lunghe riflessioni e mi faranno compagnia in questa nuova storia che sta per iniziare.
Vado, i piedi cominciano a muoversi. A loro è arrivato il comando e avanzano, fedeli a quell’ordine dato tempo fa, ma che ormai hanno registrato. Non è la solita partenza: non ci sono bagagli, non ci sono vicini da salutare, non ci sono posti da ritrovare. Niente. Ci sono io, il mio peso, il mio silenzio, la mia solitudine. Non c’è luce e non immagino se ci sarà il sole. Se pure volesse, sarebbe nascosto da questa polvere che ha dato a ogni cosa un solo colore: grigio. Paese senza più sfumature, senza macchie di rosso, bianco, azzurro. Grigio è tutto quello che vedo. Grigio è anche quello che sono. I colori appartengono a quell’altra vita, quella dove c’era l’amore, dove c’era il lavoro, dove c’erano i sogni. Adesso che tutto questo è stato cancellato, sulla lavagna è rimasto solo il fondo grigio.
Mi sono anche chiesto: perché parto? Cosa mi deve spingere a sopravvivere a tutto quello che ho visto? Cosa devo ancora cercare per poter avere un motivo e ricominciare a vivere? Non lo so, so che non posso seppellirmi da solo. So che questi pensieri, questi complicati o semplici ragionamenti che faccio da tempo, non voglio che vadano perduti. E d’altra parte sono la mia unica ricchezza, quella che non mi potrà rubare nessuno, quella che non ingombra, quella che non mi rallenta, quella che mi farà compagnia.
Il servizio in televisione mi rimanda immagini tremende. Ma quante sono le persone in movimento nel mondo? Sono migrazioni, sono gli schiavi che cercano di fuggire dalla tirannia egizia, sono gli Indiani rinchiusi nelle riserve, sono gli Ebrei messi sui treni per Auschwitz. Sono uomini. Ma noi non li vediamo così. Per noi sono massa. Li guardo mentre preparo la cena, penso egoisticamente che sono stanca di vedere sempre le stesse scene, di sentire sempre di quanti problemi ci creano. Prendo il telecomando e giro, un po’ di musica e la mia anima ne guadagna in tranquillità. (Credo)
Mi accorgo di strisciare quasi vicino ai resti di queste mura che non si fanno neanche più riconoscere. Cos’erano? Case, scuole, ospedali? Non so, ora sono mattoni duri, cocciuti, che non sono caduti sotto le innumerevoli bombe che ci lanciano. Chi? I nemici, gli alleati… un tempo si faceva la guerra sapendo chi era il tuo avversario, oggi neanche questo è molto chiaro. Oggi quello che si fa è rincorrere potenza e ricchezza. E non c’è una sola strada per arrivare alla meta; ci sono traverse, vie, sottopassi, in un dedalo che ti fa perdere se cerchi di arrivare al bandolo, perché ad ogni incrocio puoi fare nuovi incontri, fino a formare ingorghi. Ingorgo creato da pochi, ma con mezzi talmente ingombranti da togliere spazio a molti. E quando lo spazio manca, bisogna eliminare qualcuno. E quel qualcuno sono ovviamente persone. Persone come me, come i miei amici, come la mia famiglia, come tanti che sono morti. Per fare spazio, per soddisfare interessi..
L’uomo ha vissuto per millenni nutrendosi sempre dello stesso cibo: avidità e ignoranza. Abbiamo studiato la storia, abbiamo rivissuto i drammi dell’umanità, li abbiamo condannati e ancora riusciamo a trovare dei motivi che giustificano guerre!
Non voglio pensarci, ho già fame, sono già stanco, ma non mi sembra di essermi allontanato di tanto. Sarà perché il paesaggio non cambia mai, sarà perché quelli che incontro hanno la mia stessa faccia, il mio stesso dolore, il mio stesso desiderio di portare i pensieri fuori da questa polvere. Ma per andare dove? Cosa ci aspetta? Il mondo è stanco di noi, prima ancora di vederci, di accoglierci, già vorrebbe mandarci via. Hanno torto? Hanno ragione? Non lo so, so che io avrei voluto casa mia, la mia terra, i miei colori, i miei odori e non i loro. Io non ho chiesto di lasciare il mio paese, sono stato costretto. Forse anche da quei paesi che non mi vogliono. Il petrolio, le armi, le ricchezze che vogliono dividersi, gli interessi che vogliono tutelare riguardano tutti. E il nostro problema diventa il problema di tutti.
Continuo a camminare, lo faccio contro il corpo che ad ogni passo mi urla di fermarmi, ma non voglio. Cosa succederà quando lo farò? Quando il dolore e la stanchezza non saranno la priorità cosa arriverà alla mia mente, cosa ricorderà il mio cuore? Lo so già e ne ho paura.
Penserò ai miei sogni, rivedrò i miei progetti solo per avere di nuovo la certezza che non ci saranno più. Quando ho visto mio figlio per la prima volta ho pensato a tutto quello che avrei voluto fargli conoscere. A quello da cui avrei voluto difenderlo. Al sogno di insegnarli un vocabolario dove non ci fossero le parole guerra, odio, violenza. Perché i bambini non devono conoscerne il significato. E in fondo è stato così; non ha avuto neanche il tempo di capire la vita dei giochi, che già le altre sono arrivate a strapparmelo via.
Ora mi spaventa la rabbia. Ricordo le scene dei film visti, quelli dei racconti di altre violenze, di altre follie. Uomini che provocano dolore su altri esseri umani, pensando che questo rappresenti il nostro potere. Chi ha il fucile puntato è sempre apparentemente forte. Ma chi hai di fronte sviluppa qualcosa: odio, rabbia, compassione, perdono. Sentimenti che saranno la leva per nuove storie, che segneranno altre strade. Strade spesso pericolose.
Sono arrivato da qualche parte dove ci ordinano di fermarci. Non mi ero accorto di essere insieme a tanti altri profughi in viaggio. Ci siamo trovati senza vederci lungo un cammino che non ha un nome. Dovrebbe essere “speranza”, ma quello che vediamo di fronte a noi sono barriere, sono ancora fucili. Noi che siamo vittime diventiamo colpevoli?
La sveglia mi sembra sia arrivata prima, sarà che siamo quasi a fine settimana e la stanchezza è tanta. Ma non posso poltrire a letto. Mi alzo, preparo il caffè, la colazione, accendo la TV. Soliti gesti, solite notizie. Ogni volta mi dico che devo evitare di cominciare la giornata con questo attacco continuo alla mia psiche. E a quella della mia famiglia. Sembra un rullo che gira, sempre uguale, sempre morte, aggressioni, guerra, e quelle masse di cui si è perso il conto. Camminano, sono sempre in viaggio, ma verso dove? Non lo sanno che anche noi abbiamo tanti problemi? Non sanno che non c’è lavoro per tutti, che non riusciamo ad avere la giusta e necessaria assistenza neanche per noi? E poi ci possiamo fidare? Quanti di loro si nascondono dietro un vero esodo e aspettano per colpirci alle spalle?
Mi ripeto queste frasi, queste domande come se fossero quasi una poesia, di quelle che si imparano a scuola, e mi chiedo se sono davvero i miei pensieri o sono quelli che ci hanno ormai trapiantato alla radice del cervello. Perché penso questi pensieri qui, ma poi, se invece di continuare a lavare i piatti e a preparare cappuccini mi fermo a guardarli… Beh, non mi vengono più quei pensieri. Guardo quella massa di uomini, di donne, di bambini. Tutti vicini, tutti abbracciati, tutti a difendere quell’idea di gruppo che è l’unica cosa che ancora hanno. Forse. Si forse. C’è qualcuno che invece è solo. Quell’uomo, lì, in mezzo a tanti; perché mi dà l’impressione di non appartenere a nessuno? Forse perché non si guarda intorno, perché non tiene nessuno per mano, perché non cerca con lo sguardo da nessuna parte.
Bambini che non sono il mio, che non sono rimasti sotto altri colpi, sotto altre macerie, che non hanno capito perché il loro mondo è cambiato all’improvviso, si vedono di fronte persone che non regalano nessun sorriso. Colpiscono i loro genitori, li costringono ad ubbidire a ordini senza senso, soffrono la fame, il freddo e non ricevono aiuti. Quel vocabolario pulito che volevo per mio figlio, per tutti i nuovi bambini del mondo, si dovrà invece arricchire di gesti, di sentimenti. La lingua che ascoltiamo non la capiamo, ma il terrore che ci mettono si. Il disprezzo con cui ci trattano è evidente. Il fastidio che rappresentiamo per loro è tangibile.
E mi chiedo: quale direzione prenderà il mondo se continueremo a vivere e a far vivere queste scene, queste realtà?
Siamo finiti in un tunnel; ognuno di noi è autorizzato a lavorare, a fare qualcosa per la propria sopravvivenza e chiunque ci aprirà una porta noi la varcheremo, senza sapere se è l’ennesima porta verso l’inferno.
È sera, la mia giornata è finita. Le abitudini sono sempre le stesse. Fornelli, TV, libri e cose da sistemare. I buoni propositi del mattino sono già dimenticati. Il TG rimanda le stesse notizie; non c’è più niente di nuovo al mondo, solo immagini rimescolate, come un nuovo giro di carte.
E ritorna tra tanti quel volto. L’uomo solo. Come faccio a dire che è proprio lui? Non lo so, forse mi sbaglio, ma qualcosa di nuovo mi scatta dentro.
Mi siedo stavolta.
Non penso più alla cena, non ricordo più le frenesie dell’ufficio.
Guardo. Guardo quell’uomo che ovviamente non c’è più. Ma ci sono i fucili, le reti metalliche, il freddo, la sporcizia, le lacrime dei piccoli, la disperazione e l’umiliazione dei grandi. C’è tanto, ma di fondo non c’è più nulla.
Guardo. Guardo la mia cucina, la mia casa. La mia. E cosa farei, cosa direi se qualcuno me la portasse via? Quegli uomini con i fucili, con le uniformi stanno lì, ai confini, per difenderci. Dicono. Ma difenderci da chi? Da cosa? Cosa c’è in ballo? La nostra libertà? Ma quale libertà possiamo difendere se i nostri nemici sono bambini, sono famiglie in fuga: sono persone come noi!
Non stanno tutelando i nostri diritti, stanno nascondendo i loro interessi.
Le notizie sono cambiate. Quei volti, quel volto non lo vedrò più. Lui non saprà mai cosa mi ha costretta a pensare, io non saprò mai qual è stato il suo vero destino.
Ci hanno creato dei cattivi su cui scaricare ogni colpa e a noi fa comodo così. Chiediamoci cosa succederà quando quei “cattivi” diventeremo noi per qualcun altro.
- Da un sorriso infreddolito
- Cami di maggio