Una vita a foglietti

Rassegna Li Curti – Madame Misère con Irene Maiorino e Maria Luisa Usai

ireneDa Vivimedia.

Siamo alla penultima serata della Rassegna Li Curti. Una Rassegna che Geltrude Barba ha dovuto organizzare in maniera più veloce;  quasi non ci lascia il tempo di assaporare delle ottime serate, che già ne arriva un’altra.

È una serata che potrei raccontare dalla fine, da una cosa che non c’entra niente, con una passeggiata fatta quando le macchine sono poche per strada, quando il caldo fa aprire le finestre per cercare un po’ di vento che non c’è e ne escono luci  e voci di televisori che raccontano molte più vite di quelle che possono entrare in ogni singola casa. Una passeggiata che ha avuto un sapore diverso perché l’ho fatta dopo quello che ho visto, dopo che ho  scoperto un’altra notte, di altre persone che non conosco ma che affollano tante strade al buio, spesso senza lasciare, agli occhi dei passanti distratti e ciechi, molte tracce del loro passaggio in questa vita.

Ma invece…

Cava stasera si appresta a vivere un’emozione diversa perché nel cortile di Casa Apicella ci sarà una nostra concittadina, Irene Maiorino, in compagnia della collega, Maria Luisa Usai.

Il loro spettacolo, “Madame Misère”, è davvero Loro, in tutti i sensi. Ne sono autrici e registe e interpreti. Quattro mani, due teste e due interpretazioni, che ci apprestiamo a vivere con molta curiosità.

Le troviamo già ad attenderci, in un cortile senza scenografia, perché quelle colonne di casa Apicella, già si prestano alla grande a quella che è la storia che ci racconteranno.

Due colonne appunto, una occupata da Irene, l’altra da Maria Luisa. Una con abiti succinti, l’altra messa decisamente peggio. Si guardano da lontano, ognuna a cercare di dare peso al proprio “lavoro”. Irene, accendino in mano e fiammelle che ruba all’oscurità, aspetta “l’Amore”.  Maria Luisa cartello da mendicante che chiede aiuto, un barattolino di latta per degli spiccioli, ossa marce che cerca l’oro nel Tevere.

Lo scenario è la capitale, non quella della vita mondana, ma quella della periferia, una squallida Casilina che non brilla certo per lo scintillio del lusso e della dolce vita.

Una si chiama Jasmine, l’altra Mezzanotte. Anche la scelta dei nomi non sembra casuale. Il primo, esotico, a sottolineare le tante vite che da altri angoli del mondo arrivano piene di speranza e di sogni, quell’oro nel Tevere che ha il colore della “merda”, ma che di sicuro nasconde tesori. L’altro, Mezzanotte, come a dare l’inizio a una vita che proprio da quell’ora comincia, ogni sera, sull’asfalto, la sua illusoria ricerca dell’amore.

Jasmine e Mezzanotte sono due improbabili amiche, in una vita normale non si sarebbero neanche guardate, ma lì in quella notte fatta di calore e solitudine, può anche succedere che due anime così diverse, così perdute, decidano di mettersi in cammino, verso un luogo sognato, sperato, ma non conosciuto. Spinte più dalla disperazione che dalla speranza.

Ci sono tanti dettagli che vanno colti in questa drammaturgia. Il vano della finestra con la luce rossa ad illuminare una bocca che continua a cercare fumo “per non dormire”, bocche aperte a cercare acqua che non c’è. Tutto quello che serve alle due ragazze per raccontare con i loro corpi, con i loro volti, con le mani e con i piedi la storia che hanno pensato per noi. È un racconto senza musica, ma i tacchi di Mezzanotte scandiscono ogni minuto che passa del loro lungo e faticoso andare in quella notte, come i continui movimenti delle gambe di Jasmine che danno l’idea del procedere, faticoso, duro, non solo sotto il profilo fisico, ma soprattutto della speranza. Un cammino che le vedrà scontrarsi e confidarsi, la forza di Jasmine che ha avuto molto poco e la disillusione di Mezzanotte, che crede nelle lucciole in una notte nevosa, per scoprirsi poi senza lucciole, senza neve e anche abbandonata.

È bellissimo vederle ad un certo punto correre da ferme, ansanti, sudate e stanche ma senza muoversi di un solo centimetro! Ogni cosa che si dicono nel lungo cammino è un continuo scontro di vedute: l’amore e la fame, il sogno e la ragione. Due mondi opposti che la solitudine e la Miseria possono congiungere.

In questo spettacolo forse manca la musica, ma si rappresenta la Miseria e la musica è ricchezza. Ma quei tacchi che continuano a battere, segnano un tempo che sembra essere contro di loro.

Quando si giunge alla terra promessa, Ostia precisamente, il destino sembra compiuto: volendo si può cambiare, insieme si può arrivare più lontano che da soli.

Vivere è sempre una cosa che vale la pena di fare.

Alla fine dello spettacolo, Carmela Novaldi ha tante domande da fare, Irene, come detto è una cavese doc, il numeroso pubblico di parenti che hanno approfittato per vederla in scena lo testimonia, ma tutti abbiamo apprezzato questo spettacolo nuovo, fresco giovane e saggio allo stesso tempo. Irene e Marlù, come viene chiamata affettuosamente, parlano, devo dire con un po’ di reticenza, della loro esperienza, di ciò che dietro la loro rappresentazione, perché ci sono stati giorni senza luci della ribalta che sono stati altrettanto indispensabili per arrivare ad essere quelle che oggi sono: due giovani artiste con le idee molto chiare su quello che vogliono che sia il loro futuro

E il nostro augurio è sincero nel credere che il cammino che ci hanno fatto vedere in questo cortile, arriverà molto lontano, molto più lontano di Ostia.

Appuntamento a domenica per la serata finale: Rino Di Martino con “Mamma. Piccole tragedie minimali” dal testo di Annibale Ruccello per la regia di Antonella Morea.

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