Una vita a foglietti

La Primavera Einaudi porta Maurizio De Giovanni con “Vuoto” a Cava de’ Tirreni

La Primavera Einaudi cerca di portare un po’ di luce in questo periodo tormentato da un punto di vista meteorologico. Secondo appuntamento, dopo il Premio Calvino Emanuela Canepa, arriva Maurizio De Giovanni. Per lui non si fanno più presentazioni e precisazioni; da quando i suoi Bastardi di Pizzofalcone sono finiti in TV, lo conoscono tutti. Potere del tubo catodico.

Apre la serata come sempre Claudio Bartiromo, responsabile dell’Einaudi e organizzatore di tutta la Rassegna che avrà molti altri incontri. Saluti e ringraziamenti doverosi al Club dei Lettori sempre  presenti a Cava in gran numero e all’amministrazione che è rappresentata dall’Assessore alla Cultura Armando Lamberti, fresco di nomina. Molta emozione anche nel suo intervento, l’apprezzamento per il numeroso pubblico che dimostra di seguire con interesse le iniziative proposte dall’Amministrazione comunale, che tra l’altro valorizza siti come quello di San Giovanni, che è un vero fiore all’occhiello della città.

Location che viene sottolineata dallo stesso De Giovanni, perché è bello vedere che anche “qui da noi”, ci sono posti belli a far da cornice a incontri culturali.

La serata è condotta da Letizia Vicidomini, scrittrice, speaker radiofonica, grande estimatrice di De Giovanni che ritiene suo mentore.

Le premesse della serata sono ottime. La prima lettura parla del “Vuoto”, che è anche il titolo del libro che si presenta. Una parola, come quasi tutti i titoli dei libri di De Giovanni; una parola che ha però grandi significati, enormi contenuti. “… il vuoto non è deserto… nel vuoto c’è sempre qualcosa che spesso fa male, un finto nulla…”

Il vuoto è ciò che cresce dietro tutte le parole che non riempiono né cuori né menti.

I romanzi di De Giovanni sono dei  gialli, ma questo non inizia con un cadavere e nemmeno con un evento violento; un collega che sparisce e la richiesta di aiuto ai Bastardi che, non avendo un caso in corso, decidono di rispondere a quel silenzio che non ha ancora versato del sangue.

Maurizio, lo chiamerò così, è napoletano. Sotto tutti i punti di vista e la sua appartenenza non è solo un fatto geografico. Lui è dentro questa Regione, dentro questo territorio in maniera persistente. Non c’è volta che parli, e a me è capitato più di una volta di ascoltare, che si possa aprire un discorso senza sottolineare questa costante che è, per lui, motivo di grande ispirazione. La Campania è la regione con la più alta percentuale di “Storie” di persone. Qui ogni cosa può diventare racconto, ogni gesto può essere ispirazione.

E d’altra parte la capacità di interrogarsi fa nascere romanzi. Domande e non risposte; queste spettano al lettore. Lo scrittore deve avere degli interrogativi. Fa degli esempi: chi avrebbe mai conosciuto Avetrana se Sara non fosse morta in quel modo? Chi avrebbe pensato al furgone bianco senza Yara? Chi avrebbe saputo dell’amante di Antonio se non avessero scoperto che aveva ucciso la moglie Roberta?

È da un particolare che vengono fuori storie. Se in un puzzle manca un solo pezzo, sarà improvvisamente l’elemento più importante perché distoglie dall’idea di completezza.

Poi Maurizio ci dà un consiglio: passeggiate di notte tra le 3 e le 4  in una piazza. Né prima né dopo perché potreste avere giovani ritardatari o lavoratori mattinieri. 3 o 4, sono quelle le ore giuste. Sono quelle in cui alzando lo sguardo vedrete delle finestre ancora illuminate. Ma non guardate quelle con luci forti, sono quelle di chi sta lavorando, sta facendo qualcosa di preciso, no. Guardate quelle con luci sbiadite, soffuse, quelle che non accompagnano il sonno, quelle di chi non ha ancora finito la giornata che è passata ma non sa neanche affrontare quella che deve venire. Lì c’è VUOTO. Quello fatto di rimpianti, di paure, di cose lasciate a metà.

“Il mio romanzo nasce sempre dalla normalità. Non c’è sangue ma è il più nero che io abbia mai scritto: parla di solitudine.”

E qui accade qualcosa. Non a Maurizio o Letizia o a qualcuno in particolare; semplicemente smetto di scrivere. Che ci fosse molta gente l’ho detto ed è una cosa positiva, ma che chiunque arrivi, con più o meno ritardo possa pensare di piantarsi come un palo senza domandarsi a chi dai fastidio non è tanto bello. Soprattutto se non hai nemmeno l’accortezza di stare fermo o in silenzio!

Non sono molto paziente ma scenate non ne voglio fare. Mi allontano sperando di sistemarmi altrove, ma divento io stessa fastidiosa per la signorina che ha la cassa della mostra di Robert Doisneau che mi chiede di allontanarmi. Giustamente. Lei non sa chi sono! Perché in una serata così, dove già qualche sedia in più poteva esser messa, si convive anche con la mostra, quindi con persone che entrano per visitarla, pagare il biglietto, chiedere informazioni e poi lasciare commenti positivi su quanto hanno ammirato.

Problemi di logistica, necessità non so. Dico quello che è stato il risultato. Vuoto sulle pagine.

Ammetto la mia intolleranza, e me ne assumo la responsabilità, ma davvero non concepisco perché si vada ad ascoltare qualcuno e poi non si fa molto per ascoltare.

Eppure di spunti ne ho sentiti altri e mi sarebbe piaciuto appuntarli.

Come il rapporto con i figli, le relazioni con i professori, il concetto della parole che sono pietre e possono quindi edificare, ma anche distruggere. E l’uso smodato che ne fanno personaggi politici che dovrebbero dimostrare con i fatti i loro pensieri e non distrarci con comizi quotidiani sui social, sulla loro mancanza di azione. Soprattutto quando si mete in primo piano un certo tipo di problematica che è propaganda e non esigenza primaria di un paese che ha ben altra corruzione e delinquenza da combattere. E ancora la scelta di non andare più nelle scuole, perché si deve sentire la necessità di parlare per chi ti vuole ascoltare e non per chi considera la tua presenza un’occasione per risparmiarsi l’ora di matematica. (che approvo particolarmente)

E poi quel bisogno dello scrittore di entrare dentro i personaggi che descrive. Tutti e li deve amare, con i loro pregi ma anche i difetti, perché solo se li capisci li puoi raccontare. Mi viene subito in mente il lavoro dell’attore, soprattutto quello di teatro, che deve diventare ciò che rappresenta, qualunque ruolo sia, altrimenti non potrà mai trasmettere le passioni o la follia o l’odio che prova. E il legame con il teatro è davvero forte anche per Maurizio che confessa, infatti, di aver scritto un pezzo che considera una delle sue migliori produzioni.

Come vedete ci sarebbe stato tanto da sottolineare. A me sono rimasti gli spunti e la voglia di soffermarmi a pensare, perché da serate del genere è bello portare a casa qualche riflessione, alcune di quelle domande che poi devono obbligarti a dare delle risposte!

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