Una vita a foglietti

A cinema con “Dafne” e l’Associazione A.P.D.D.

Sono passati diversi giorni da quando ho visto il film Dafne, proiettato al cinema Alambra per volere dell’ A.P.D.D. Associazione Persone con Sindrome di Down e Disabilità intellettiva. Normalmente lo chiamerei ritardo, ma il motivo per cui scrivo oggi è solo una scelta.

Alla fine della proiezione, una cosa è tornata ancora una volta nella mente: la concezione del tempo. Da lì sono partite tutte le considerazioni che mi hanno spinta a dedicare i giorni passati, a osservare il mio, il nostro tempo, e a riflettere su come lo gestiamo. Ma non solo.

Torniamo a giovedì; la mattinata è organizzata come detto dall’A.P.D.D. e le persone che la compongono le conosco quasi tutte e ne percepisco la grande emozione per questa creatura appena nata nella nostra città. Sono i loro figli che hanno questa sindrome e cercano, con queste iniziative, di mandare messaggi alla società degli abili, affinché si accorgano dei diversamente abili. Lo fanno prendendo in prestito lo slogan “Diversi ma uguali”, i calzini spaiati, che restano sempre uguali anche se indossati con piedi diversi.

E il saluto di Autilia Avagliano, presidente dell’Associazione, ad una sala di rumorosi ragazzi dei vari istituti delle superiori di Cava, parte dalla presentazione proprio dei loro figli, dalla precisazione di come siano ragazzi che impiegano solo più tempo per fare delle cose, ma che possono condividere giochi e amicizie con tutti. Del bisogno di sostegno economici per farli affiancare da tutor che possano insegnarli un lavoro per essere indipendenti e a gestire una casa per potersi sposare e vivere la propria vita. E lascia una mail a cui chiede di scrivere, per lasciare messaggi, fare domande e anche inviti per coinvolgere i loro ragazzi nelle iniziative giovanili.

Ammiro la sua forza nel parlare su tutto quel vociare tipico quando c’è la presenza di una tale massa di giovani, la sua caparbietà nel proporre modelli diversi, ma non per questo secondi a nessuno. E su questi presupposti inizia la proiezione.

Dafne è una ragazza con sindrome di Down, e alla fine di una vacanza, perde la mamma e deve affrontare il lutto e la nuova situazione familiare che le si pone davanti insieme al padre.

Non ho desiderio di parlare del film in sé, la storia è semplice, ma di tutto quello che mi ha lasciato, di tutto quello che mi ha obbligata a pensare.

Perché riteniamo i ragazzi con questa sindrome così “diversi” da noi? Uso il virgolettato perché questo termine non mi piace ma è quello che usiamo per definirli. Noi che cresciamo figli “normali”, abbiamo sempre in testa l’eccellenza: che vadano bene a scuola, che sappiano fare tanti sport, che vincano premi e che si distinguano dalla massa primeggiando. Cosa riserviamo a ragazzi che invece, per arrivare ad un obiettivo, hanno bisogno di più tempo? Noi li lasciamo indietro. E lo facciamo per questo nostro sbagliato concetto del tempo, di quanto noi pensiamo che debba essere bruciato piuttosto che vissuto. Noi ci lamentiamo del “tempo perso”, ma è solo il tempo che ci permette conoscenza!

Ho detto che ci ho pensato al tempo, alla vita, ai valori. E l’ho fatto perché da quel cinema sono uscita arrabbiata. Soprattutto con me stessa. Perché nelle poche parole che ho rivolto ad Autilia alla fine della proiezione, io ci ho messo la rabbia, lei mi ha risposto con calma. Lei già sapeva quello che io volevo spiegare. Io lo avevo visto da poco, lei, come gli altri suoi associati, lo vive da quando qualcuno le ha detto che anche suo figlio aveva un cromosomo in più.

Ma nel nostro pensare, avere qualcosa in più, non è un vantaggio? Perché in questo caso non lo è?

Davvero la natura, il Signore se crediamo, ha permesso questo scherzo? Regalare ad un bimbo un qualcosa in più per renderlo emarginato? Non ci credo.

Queste persone che sono così sincere, così precise nello svolgere i compiti che gli vengono affidati, così sensibili nel guardare gli altri e i piccoli dettagli del quotidiano, perché non dovrebbero essere considerate addirittura migliori di noi piuttosto che il contrario?

Mi sembra che siamo noi quelli che scappiamo dal lavoro, che ci prendiamo meriti che non sempre abbiamo, che guardiamo il nostro vicino come qualcuno da sfruttare e che spesso non ci fermiamo a dare una mano a chi ha bisogno! La differenza d’animo ci può rendere peggiori, non il nostro aspetto fisico.

Noi che viviamo nella società dell’apparire, che modifichiamo il nostro corpo per essere sempre giovani, sempre tonici, sempre “belli”, che seguiamo solo le mode, pensiamo davvero di poter giudicare chi ha un viso diverso, la lingua di fuori o gli occhiali spessi? Essere belli col “trucco”, significa barare. Loro si devono accettare per quello che sono, noi non sempre siamo in grado di farlo.

Ci sono stati due momenti che mi hanno maggiormente colpita nel film. Una è stata un’inquadratura: un lampione acceso su uno sfondo scuro. Qualche minuto per cercare di capire cosa illuminasse quella luce, perché la zona sottostante era vuota, per poi scoprire persone su un lato oscuro della scena. Siamo così scontati! Guardiamo dove vogliamo che si guardi e fuori dal cono di luce non vediamo niente.

E poi alla fine del film, quando Dafne ha mostrato al papà un oggetto prezioso: un palloncino sgonfio.

Era di qualche festa in casa, di sicuro l’aveva gonfiato la sua mamma e lei aveva sentito, in quel ricordo molliccio ma reale, il suo respiro. Questa sensibilità è davvero di tutti?

Tanti pensieri, tante domande, pochi confronti. Io non so cosa farei se dovessi condividere il mio tempo con questi ragazzi. So che quando mi è capitato, anche solo per poco, ho sempre notato che i loro comportamenti pretendevano da me delle riflessioni. Riflessioni profonde, interrogativi sull’animo umano, sul nostro egoismo, sulla nostra aridità, sulla nostra incapacità di pensare agli altri, chiunque altro, come qualcuno degno di rispetto e a cui bisogna riconoscere dignità.

Noi che ci teniamo lontani da certe realtà come se potessero infettare le nostre vite, come se potessero rallentarne il passo e non capiamo che a volte la vita si diverte a presentarci situazioni in cui i “diversi” siamo noi. Perché diverso è chiunque viene giudicato ed emarginato senza essere compreso.

A me Dafne e i suoi amici hanno regalato questo. E mi è sembrato un dono troppo importante per non dargli il giusto peso, la giusta importanza. Come il fiato conservato in quel palloncino sgonfio, una briciola che può essere nulla, ma che può sfamare un uccellino ed è comunque una vita che si salva.

Il tempo è fatto di giorni e di anni, ma anche di attimi e a noi, spesso, sfuggono quelli.

Se dedicassimo un po’ del nostro prezioso tempo, che viviamo sempre rincorrendolo e mai gustandolo, a chi ci passa accanto, forse ne incroceremmo lo sguardo. E non importa che sia un ragazzo con sindrome di Down o no, scopriremmo che è un essere umano con le sue ricchezze e le sue povertà, da cui poter prendere e a cui poter donare.

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