Arte Tempra – Ferdinando
Secondo appuntamento della Rassegna invernale Autunno teatrale di Arte Tempra all’Auditorium De Filippis, presso I.I.S. “Della Corte – Vanvitelli”
Tutto esaurito in sala, per la prima di domenica 22 novembre. In scena Ferdinando, di Annibale Ruccello, con la direzione di Clara Santacroce e Renata Fusco, che come sempre si rivelerà ferma, incisiva e comunicativa.
Un raggio di luce da una porta di servizio, prontamente chiusa, tenta di lasciare uno spiraglio su un “fuori” che ha, almeno a prima vista, poca attinenza con il “dentro”. Siamo infatti andati indietro nel tempo. Sono gli anni che seguono la caduta dei Borboni e la formazione del Regno d’Italia (1860 – 1861); un letto accoglie in permanenza Donna Clotilde (Federica Coppola), una nobile baronessa in decadenza, accudita dalla cugina povera Gesualda (Giuliana Carbone).
Man mano che la storia si svelava, cercavo di cogliere singoli spunti significativi nelle conversazioni dei protagonisti, perché ce ne sono. Tanti. Ma, quando sono arrivata alla fine, ho scoperto che “Ferdinando” nel suo complesso racconta molto di più di ciò che abbiamo ascoltato.
La storia, a una prima lettura, racconta di questo “esilio nel suo letto” a cui si è costretta donna Clotilde, quasi in segno di negazione del nuovo che avanza. Assolutamente legata alle sue origini, in contrapposizione anche alla nuova lingua che prende piede, l’italiano, vuole mantenere a tutti i costi le vecchie abitudini, vivendo di ricordi. Per questo si finge malata, così da evitare ogni contatto esterno con il mondo e frequenta solo la cugina Gesualda, “figlia ‘e zoccole, per reazione bizzoca”. L’unico ad entrare in casa è il parroco, don Catello (Giuseppe Cardamone), con appuntamenti regolari, fin troppo regolari per donna Clotilde, donna vissuta, che non lesina maldicenze. Questa monotona quotidianità viene però completamente stravolta dall’arrivo in casa di Ferdinando (Luca Senatore), nipote sconosciuto, presentato dalla lettera di un notaio.
Ferdinando, con la sua bellezza giovanile, la sua sfrontatezza, la sua libertà di costumi, susciterà il desiderio di tutti i personaggi della casa, ognuno per un motivo diverso. La baronessa si riprenderà dalla sua malattia apprezzando le giovani forze del nipote; Gesualda cadrà vittima del suo fascino, bisognosa di un contatto fisico che non riceve più da don Catello, a sua volta ammaliato dal giovane, che non si sottrae alle attenzioni di nessuno.
Ma questa sarebbe una storia. Una semplice storia. E non lo è. “Ferdinando” è di più.
Innanzitutto per la tecnica composita della narrazione “a più generi”. Nella prima parte domina la dimensione commedia, con richiami evidenti al Molière de “Il malato immaginario” ma anche alla commedia napoletana, senza escludere qua e là spunti di farsa. Nella seconda parte, i duetti che scavano l’anima richiamano la tradizione del teatro borghese e mostrano con più evidenza “i caratteri” di ogni singolo personaggio. Nella terza parte, si svelano gli altarini e scoppiano drammi feroci, con accenti che non disdegnano il richiamo alla tragedia greca.
Una mescolanza di straordinario impatto scenico ed emozionale, che le due registe e gli attori hanno saputo valorizzare con tutta la grinta e la classe di cui sono notoriamente ricche.
E poi, il testo: illuminante, geniale, carnale.
Questo è il testo più “politico” che Ruccello abbia lasciato. Con la decadenza della nobiltà, Ferdinando, (nome falso usato dal giovane per accattivarsi i vecchi fautori dell’era borbonica, ma in realtà egli si chiama Filiberto, a testimonianza della predilezione verso i Savoia) è l’emblema del nuovo che avanza. Ma il nuovo disposto a tutto, la nuova generazione, la nuova classe, quella borghesia non produttiva ma parassitaria, che non si ferma davanti a niente pur di arrivare allo scopo.
I tre personaggi che Ferdinando ha ingannato avevano tutti anche un motivo affettivo nel loro rapporto con Ferdinando, lui invece aveva solo l’obiettivo materiale: la ricchezza. Dura lezione che nei secoli ha sempre più preso piede, è diventata lezione di vita. Purtroppo. Il fine giustifica i mezzi. Dura ma veritiera la lezione di Ruccello.
I quattro protagonisti, anzi le tre “vittime” di Ferdinando, sono molto più complessi di quello che appaiono a prima vista. E nessuno è innocente. Anzi. Ma nessuno è solo colpevole. Anzi. E proprio la presenza dell’amore, nelle sue varie direzioni di genere, nonostante le sue sconfitte, testimonia in loro un’anima che invece Ferdinando non ha.
Donna Clotilde è sarcastica e pungente nella parte della malata immaginaria. Federica in quel letto la fa davvero da padrona, in tutti i sensi. Le boccacce, le frecciate per niente velate che lancia alla serva, al prete, alla Chiesa, al marito defunto, le nascono spontanee e divertentissime, così come riuscirà convincente anche in quella parte dello spettacolo che volge verso il dramma, passionale e sociale. In questo è ancora una volta sostenuta da un testo a trecentosessanta gradi. E l’ultima frase, da lei rivolta a Ferdinando (“…il mondo è tuo. Tieni la collana non per ricordare me. Tu appartieni ad un’altra generazione, una brutta, senza ricordi. E chi non ne ha, non ha futuro” ) è la sintesi geniale dell’inquadramento storico politico di tutto il testo.
Gesualda è tremenda. Lei deve reprimere quasi sempre i suoi sentimenti, non ha uno sfogo. Ma il corpo si ribella alle parole che indicano sottomissione. Attraverso occhi che trafiggono, mani che stritolano oggetti, si avverte quel ribollire interiore. E quando il vulcano esplode, durante la confessione della peccaminosa tresca con don Catello, siamo tutti investiti da quella nuova donna, che da casta e pura, si trasforma in una perduta amante, assetata di sesso. E non posso non pensare alla giovane età dell’attrice. Avere vent’anni e sputare l’acidità di una zitella. Avere vent’anni e dimostrare il desiderio di una matura donna abbandonata, non è proprio semplice. Credo. E poi aggiungo come nota più che personale, conoscendo Giuliana Carbone, che forse persona e personaggio più diversi tra loro non si potevano incontrare. Ma questo aggiunge merito alla sua prestazione decisamente da applausi.
Don Catello, uomo di Chiesa, della chiesa si ricorda quando deve servirgli da parafulmine. La prova di Giuseppe è stata intensa e convincente. Dovrà sopportare il peso della tonaca, la doppia vita di onesto curato ma assetato di amore carnale e che sarà la sua condanna. Fisica e morale. I discorsi conosciuti sul peccato ma dimenticati nel momento del desiderio, lo hanno costretto a combattere per difendere il poco, pochissimo che c’era da salvare nel suo comportamento. E la disperazione dovuta alla gelosia e alla vergogna per essere stato tradito e scoperto sono stati ampiamente raccontati.
Ferdinando poi, bello e aitante, giovane e arrivista, ha trovato in Luca un degno rappresentante. Qui un giovanissimo, come prevede il copione, ma così scaltro da muoversi con una leggerezza e una semplicità tra le debolezze delle sue vittime, da far quasi paura. Accecato da un’unica motivazione, il denaro, non si sottrarrà alle attenzioni di nessuno, pur di arrivare allo scopo. Bello e tremendo, in una combinazione che spesso porta danni.
Se questo non bastasse, ci potremmo soffermare anche sul grande danno che ha recato a queste persone il vivere in assoluta solitudine. Vite rinchiuse dentro quattro mura, assoluta mancanza di rapporti sociali, la negazione quasi di altri punti di vista, hanno permesso tutto quello che è successo. Anche da questo punto di vista Ruccello ci lascia un monito.
E oggi questo messaggio mi sembra ancora più importante da sottolineare. Non è con la chiusura agli altri che si migliora. Anzi, chiudere animali dentro una gabbia, li rende solo più cattivi….
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