Arte Tempra – Liolà
Il luogo è sempre lo stesso, l’Auditorium De Filippis presso I.I.S. Della Corte Vanvitelli, gli spettacoli sono quelli di Arte Tempra e dell’Autunno Cavese 2015. Clara Santacroce e Renata Fusco ancora responsabili della regia e quest’ultima anche della direzione musicale e delle coreografie. Molti dei ragazzi in scena stasera li abbiamo già ammirati, ma c’è un’altra cosa che continua ad essere una costante di queste nostre serate insieme: la qualità, la competenza, la professionalità, la cura dei dettagli.
Sette Dicembre: in cartellone Liolà di Luigi Pirandello nella versione con i testi originali in dialetto siciliano. Trovo questa scelta davvero coraggiosa sotto tanti punti di vista, a cominciare dalla difficoltà dell’attore nel memorizzare e far suo un testo scritto in una lingua non sua.
Una volta fatto questo, bisogna considerare che il pubblico non sempre riuscirà a comprendere il significato dei dialoghi proposti e allora come fare a compensare questi eventuali “buchi” che si possono creare? Con la gestualità, con il corpo, con gli occhi, con tutta la mimica disponibile.
Evidentemente nella scelta, non recentissima (è il terzo anno che questo spettacolo viene messo in scena) Clara Santacroce e Renata Fusco hanno avuto la perfetta consapevolezza del patrimonio di qualità rappresentato dai giovani attori che hanno avuto il merito di preparare nel corso degli anni.
Citiamoli dunque per dovere ma soprattutto per piacere: Gabriele Casale, Liolà; Lello Conte, zio Simone; Federica Coppola, Mita, sua moglie; Brunella Piucci, zia Croce Azzara; Giuliana Carbone, Tuzza, figlia di zia Croce; Maddalena Califano, zia Ninfa, madre di Liolà; Luciana Polacco, Carmina detta la Moscardina; Elena Porcelli, gnà Gesa, zia di Mita; Francesca Senatore, Luzza; Lella Zarrella, Ciuzza; Manuela Pannullo, Nedda; Alberto Fusco, figlio di Liolà.
Sono questi i personaggi della storia che racconta uno spaccato di vita contadina, quella che dovrebbe essere semplice, scandita dal lavoro nei campi, dalla raccolta dei frutti di stagione. Ma dove si scontrano la ricchezza e la povertà, le vecchie convinzioni e il nuovo che avanza, il tutto condito da pettegolezzi, invidie interessi e intrighi.
Quando si apre il sipario la scena che ci appare sembra un quadro. Potenza di costumi realistici che sanno e sapranno bucare esplosivamente la scena. È la musica scandita dal tamburello della stessa Renata e dei musicisti che suoneranno dal vivo a dare vita agli attori e alla scena: Guido e Gabriele Pagliano, Peppe Palladino e Gabriele Rosco
Le donne commentano il lavoro, la fatica della raccolta delle mandorle e prendono di mira il padrone zio Simone, ricco e avaro, che nega anche il sorso di vino promesso. Da questo rifiuto prendono spunto per malignare sia sulla mancanza di figli dal suo matrimonio con Mita, sia su come questo possa essere motivo di aspettative per tutti perché solo in questo caso, alla sua morte, ne riceveranno benefici. Mentre le donne parlano, cantano, spettegolano, sul palco si aggira Tuzza. Lei non dice niente, passa tra quelle donne, le guarda, le studia, le odia: in silenzio racconta tutti questi sentimenti. È un’anima in pena tra quelle donne con cui non vuole condividere né il buon umore, né i commenti su Liolà, il bello del paese. Uomo che dimostra grande cuore quando decide di crescere insieme a sua madre tre figli nati da relazioni peccaminose; bello, che ama il canto e che tutte vorrebbero, ma che tutte temono per il suo animo libertino, per la sua poca disponibilità all’impegno.
Ma in questo normale tranquillo giorno accade l’imprevisto, l’intrigo. Liolà si presenta da zia Croce Azzara e chiede la mano di Tuzza! La ragazza è incinta e lui vuole salvarne l’onore. Ma Tuzza non ci sta a diventare la moglie di un nullafacente dongiovanni ed essere derisa dalle altre ragazze del paese.
La sottomissione di Liolà e lo smacco del rifiuto; la rabbia e la vergogna di zia Croce che si sono trasformate in complicità per il disegno di Tuzza; le botte che quest’ultima ha preso (per davvero, le abbiamo sentite anche noi dalle sedie le sferzate dei panni di cucina sulle braccia), prima di smascherare un piano che facesse diventare la vergogna per la sua gravidanza, un occasione di ricchezza. E la vittima diventa zio Simone, ma principalmente diventa vittima delle sue vecchie convinzioni, quelle legate ad una necessità di essere padre per avere un erede, il figlio a cui lasciare tutto il patrimonio di famiglia. Questa sua necessità non soddisfatta dalla moglie, ovviamente ritenuta unica colpevole, sembra dunque pienamente soddisfatta dalla proposta di Tuzza e di sua madre che sono disposte a far credere che il figlio che nascerà sarà suo, in cambio del silenzio sulla verità e sulla promessa del patrimonio da lasciare al piccolo.
Liolà, da uomo sveglio, capisce perfettamente che, di fronte alla parola di zio Simone che reclama la paternità di quel bambino, lui non ha nessuna possibilità di far valere la sua ragione. Ma ripaga tutti e due, zio Simone e Tuzza, con un colpo veramente basso. Dopo che zia Mita viene scacciata di casa perché “chiaramente colpevole” di non avergli dato figli durante il loro matrimonio, la circuisce facendola cadere tra le sue braccia, con la certezza che non sarà il Signore a regalarle quel figlio che le salverebbe il matrimonio, ma una presenza molto più terrena: la sua. E a quel punto il gioco è fatto. Mita resterà incinta, zio Simone la riaccoglierà in casa perché quello davvero DEVE essere figlio suo e Tuzza sarà ripudiata da tutti. Liolà le concederà solo di accogliere anche quel bambino. Dove ce ne sono tre, ce ne saranno anche quattro.
Questa è, in breve, la storia. Una tremenda storia dove verità e bugie si sono intrecciate così intensamente da fare in modo che alla fine tutti potessero avere torto o ragione, tutti potevano essere vittime o colpevoli. Quello che mi piacerebbe davvero saper fare in questo momento sarebbe raccontarvi i dettagli.
E la bravura degli interpreti… cosa non ci hanno raccontato con tutta la loro forza di attori e di persone! Meravigliosi. E meravigliosamente diretti nella recitazione e negli spettacolari movimenti di gruppo, e altrettanto meravigliosamente accompagnati dalla musica.
Immagini, sensazioni, impressioni che rimangono incise nella mente e nel cuore.
Le doti canore di Mita e Liolà, le espressioni, le passioni, gli stati d’animo che abbiamo saputo e potuto riconoscere sempre, grazie all’affiatamento, alla professionalità, alle doti di questi ragazzi. E le facce di Luzza, Ciuzza e Nedda, mentre lavoravano e cantavano ed aspiravano a guardare da lontano l’arrivo di Liolà e nello stesso tempo lo rinnegavano. Tiniddu, affettuoso e gioioso insieme a quel padre con poca rettitudine, ma amante della vita. E poi, la difesa strenua e continua di zia Ninfa per suo figlio anche di fronte all’evidenza del peccato; la reazione di Mita che canta e piange per l’umiliazione subita, ma che sa prontamente riprendersi il ruolo di prima donna; l’ostinazione di zio Simone, il “becco” che, di fronte all’evidenza della sua infertilità, nega fino ad essere ridicolo, pur di avere un figlio che non disperda il patrimonio di famiglia. E che dire di gna Gesi e Carmina, nel loro tenace tentativo di smascherare l’inganno prima di Tuzza e poi della stessa Mita, chissà se per amore della verità o più probabilmente pronta a salvare quella piccola porzione di eredità che sarebbe spettata loro? E di zia Croce Azzara, colpita più volte nell’orgoglio, offesa dalla vergogna di sua figlia, riabilitata dalla speranza della nuova vita di ricchezze, finita di nuovo nella polvere, proprio come Tuzza.
Vite chiuse dentro un piccolo cerchio, talmente piccolo da scontrarsi per forza e dove davvero l’esplosione di vitalità di Liolà contrasta con l’attaccamento alle vecchie abitudini. Liolà farfalleggia sul palco, regala carezze, sguardi e sogni a tutte le donne presenti e canta sogni e speranze che, se pure non capisco, mi fanno vedere il mare in lontananza, mi fanno sentire il calore del sole, assaporare i frutti della terra.
Il tutto mescolato sapientemente in un mix spettacolare e coinvolgente, carico di tutta l’appassionata tempra del gruppo e irrorato dai necessari pirandellismi e da un inarrestabile flusso di vitalismo senza molte maschere tipico del pirandello siculo e campagnolo.
In partenza ero perplessa per la sfida, alla fine, come tutto il pubblico, ne sono uscita incantata.
- Donato Carrisi a Roccapiemonte. Serata da ricordare
- Ciao papà