Dosare il dolore
Non ha data questo foglio, o meglio, non lo so quando questa storia ha cominciato ad aver bisogno di una data precisa.
Cosa devo contare? Cosa devo ricordare? Gli anni passati senza vederti, gli anni passati a pregarti di stare insieme, gli anni passati a rodermi il cuore, gli anni passati a convincermi che non dovevo più pensarti.
Questi freddi numeri potrebbero sembrare particolarmente lunghi, ma sono svaniti nel vano di un ascensore che si apre e ti mette di fronte a noi.
La nuova realtà, gli anni sbriciolati dentro due nomi pronunciati e un bisogno, un desiderio che si rivela.
Un attimo e pugni allo stomaco che mi piegano a metà, un tombino saltato e umori che fuoriescono, strabordano, invadono, soffocano.
Questa è la reazione del cuore. Quel cuore che avevo abbottonato, segregato e rinchiuso perché il suo modo di battere mi provocava dolore, mi impediva di vivere.
Ora è di nuovo chiamato in causa e quello che può fare, senza deciderlo, ma istintivamente, perché è quella la sua funzione, quella è la ragione per cui esiste, è riprendere a battere. E a far male.
E avere la netta, precisa, assurda sensazione di sdoppiarsi. Una persona, due modi di reagire. Una guarda l’altra, una sorregge l’altra. Un tentativo di difesa, perché di fronte a tanto, il rischio del nulla è più che concreto. Una parte guarda, reagisce, l’altra accumula, frena, tiene a bada. Sono anni che andiamo avanti così e la resistenza è cambiata. Il nemico è lo stesso, ma combatte con armi un po’ diverse. Ora la preda si vede, ci rendiamo conto delle sue condizioni e questo ci rende, apparentemente, ancora più deboli.
È un’esperienza già vissuta ma su un territorio diverso.
Siamo già cadute dentro questa trappola: mostrare la vittima di turno, far cadere le nostre difese e poi abbatterci. Difficile non ricordarlo adesso. Difficile non restare ferma, spalle al muro, cercando un riparo che non so se troverò.
Difficile trovare le armi per l’ennesimo scontro.
Ed è difficile soprattutto gestire queste due persone che sono nate dentro di me: quella che vorrebbe urlare la sua rabbia in ogni lingua del mondo, mostrare le piaghe infette che credeva di aver curato per un po’ ma che si sono rivelate purulenti fino all’osso. E quell’altra me, quella che ancora esce, vive la sua vita, mette il cuore nella camicia di forza e nasconde ferite e dolori. Quella razionale che difende e protegge gli altri, quelli che mi sono vicini, quelli che vengono attaccati da questa malattia infettiva che dà reazioni diverse. Ma ugualmente devastanti. E a loro devo pensarci io. Come sento di dover difendere quella preda di una guerra non cercata ma che sto combattendo, a maggior ragione devo difendere chi in guerra ci si è trovato senza armi, ricevendo solo ferite.
Ed è pesante. Ed è difficile.
Bisogna portarsi i propri pesi e moltiplicarli per due. I passi diventano imprese titaniche, le giornate si confondono tra la notte e il giorno, tra i doveri e il desiderio di mollare, tra la normalità e l’assurdità di una storia che non si può più sopportare.
Tra le risatine della gente, tra i veloci e superficiali commenti di chi si ferma a quella patina polverosa che giustifica azioni che, giusto un millimetro più sotto, a voler riflettere, a voler davvero guardare, mostrerebbero verità completamente diverse.
Ma perché farlo? Farsi domande esige risposte e il SAPERE dovrebbe portare a prendere delle decisioni diverse. E a maggior ragione: perché farlo?
Se ciò che abbiamo a portata di mano soddisfa le nostre aspettative pratiche, se ci toglie quella responsabilità umana e ci mette al sicuro da altri giudizi?
E in questa continua, solita, stantia, vergognosa farsa di ruoli voluti cercati e trovati, noi siamo quelli messi al centro e colpiti. Giudicati e colpiti. E spesso affondati.
Continuate a giudicare, le vostre conclusioni non mi colpiscono più.
Continuate a puntare il dito, non mi toccherete mai.
La vita ha voluto questo per noi e non ci tireremo indietro. Ma forse, in questa vita, il compito più importante non sarà sopravvivere, ma fermare questo diavolo che cammina liberamente per le strade, continuando a seminare violenza e dolore.
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