Il cielo azzurro di settembre
Un cimitero è un luogo di ascolto. Ho sempre avuto un modo curioso di guardarmi in giro quando li visito.
Ne ho visti diversi, la frammentazione della famiglia me ne ha “concessi” parecchi, alcuni che ho conosciuto di più, altri solo di sfuggita.
Di molti di loro ricordo dei volti sconosciuti che mi diventavano familiari col tempo, perché li ritrovavo sempre lì, nell’eterna immobilità di una foto che sbiadiva, ma che non alterava il volto di chi rappresentava.
Tante volte ho provato ad immaginare le loro storie soltanto dalle date di nascita e morte, per scoprire l’età della loro dipartita, o dalle frasi che i parenti avevano voluto incidere in quel marmo freddo, affinché un pensiero, lieve, ma vero e immortale, lasciasse una traccia del loro passaggio su questa terra.
Traccia per chiunque: per chi li aveva amati, per chi non li aveva neanche conosciuti, ma che solo in quel momento finale, duraturo e per sempre, poteva scoprire che avevano vissuto.
Tutte queste cose significano le lapidi. Poi c’è chi la vuole più bella, più grande, più ricca, per sottolineare delle differenze di cui abbiamo bisogno solo noi, quelli esteriormente umani, a cui interessano ancora le apparenze.
Ma, come ricordava un mitico Totò nella sua “A Livella”, una volta lasciati sotto la scura terra, i morti sono tutti uguali. Torneranno ad avere una differenza solo davanti al Signore. Ma in quel caso noi saremo spettatori, mai giudici. Finalmente.
E con questi pensieri mi sono avviata tra i viali che poco conosco, ma che sono nuovi a loro volta. Lo sguardo si è perso sempre tra quelle immagini sorridenti, spesso solo serie, a volte troppo giovani, ma che dovunque, sempre, raccontavano una storia. La loro.
Noi questo giro non possiamo farlo a casaccio, dobbiamo chiedere informazioni. Numeri, indicazioni, salite, discese ed eccoci là.
Là dove? Da chi? L’uomo si chiede da sempre cosa c’è al di là della morte, noi più banalmente ci chiediamo chi c’è al di là del muro. CHI?
Il nulla. Il dubbio che nasce, la speranza di essersi sbagliate. Ma il cuore sa che quella è l’ennesima verità che ci tocca scoprire. Lo sa e non regge. Per un attimo si ferma. Tutto il dolore del mondo, come un fulmine, si abbatte nel centro del petto. Ma è un fulmine silenzioso. Non somiglia a quelli della scorsa notte, quando i tuoni ruggivano contro la terra, come leoni in gabbia contro questi uomini assurdi, incontrollabili, falsi, cattivi, bugiardi, incapaci di amare. Mai sentiti tuoni così. Erano un urlo, erano un monito. Ma non tutte le orecchie devono averli ascoltati.
Ed ora quel fulmine silenzioso e terribile mi abbatteva. Da qualche parte un pensiero gridava “Vengo io a farti compagnia”, perché non può esistere questa solitudine. Non si può dare una punizione del genere. Non si può far questo e restare impuniti.
Io non reggo. Le gambe cedono, la paura coglie impreparata chi sta con me, un passante chiama aiuto.
E intanto intorno c’è un silenzio quasi totale. Sono distesa, guardo il cielo che ha un colore bellissimo, gli alberi regalano ombre per dare frescura a chi lavora o rende visita a quegli abitanti silenziosi. Silenziosi, immobili, ma presenti. Tranne te.
Passano attimi, minuti, quanto? Mi rialzo, sono sconvolta. Siamo sconvolte. Torniamo indietro, il colpo del fulmine si sente ancora, il respiro è pesante, a volte manca. L’aiuto è arrivato. Un uomo mi accompagna. È gentile, mi chiede addirittura scusa perché mi ha presa sottobraccio per sorreggermi, io in realtà non ho guardato neanche il suo volto. Se lo incontrassi non potrei ringraziarlo nemmeno. Ricordo una camicia azzurra, o forse azzurro è il colore del cielo che mi è rimasto negli occhi.
I dottori, le domande, il prelievo
– Vi faccio male, se sentite troppo dolore ditemelo.
Troppo dolore? È dolore quello che un ago può fare mentre cerca di infilarsi dentro una vena che non vuole saperne di farsi trovare? È dolore sentirsi pungere alla ricerca di qualcosa che stabilisca un contatto tra il dentro e il fuori, mentre per me, il dentro è distrutto e il fuori è fatto di anonimato. Di solitudine. Di abbandono. Di punizione. Di cattiveria. Di tutto quello che può significare un marmo muto.
Lacrime, lacrime, lacrime. Viaggiare senza riconoscere la strada, entrare con gli occhi rivolti al soffitto, con quelle luci adesso finte, non più offerte dal sole e sentirsi stanca. Stanca di tutto quello che è stato, di quello che continua ad essere e che purtroppo sarà.
Ho tanti pensieri, me ne vengono in mente per tutti. Per quelli che hanno facilmente scelto la strada dell’unica campana, di quelli che hanno approfittato di un momento per rifarsi forse di anni di invidia, di quelli che avrebbero potuto e che non hanno fatto nulla.
Vorrei sapere le loro opinioni al riguardo, vorrei sapere quale poteva essere la loro reazione di fronte a quello che abbiamo vissuto e visto e subito noi.
Sapete, è molto difficile giudicare. Tanto difficile che non si dovrebbe fare.
Per questo io ancora oggi vorrei chiedere tante cose, fare domande che possano dare risposte piuttosto che lasciarmi intuire storie e comportamenti e reazioni. Ma non ci riesco.
Chi accusa spesso lo fa nell’ombra, nascondendosi dietro bugie che hanno gambe molto più che corte, che raccontano storie che cambiano ad ogni interlocutore, secondo la necessità del momento.
Eppure non è così. La storia è una. Che ogni attore la viva a modo proprio ci sta, con la propria capacità di amare, ragionare, rapportarsi a chi gli sta di fronte. Ma la verità è una sola.
Quella data dai fatti, quella di cui si discuterà forse, finalmente in maniera definitiva.
Ma discuteremo ancora una volta di numeri, freddi calcoli che non avrebbero avuto bisogno di essere fatti. Non ce n’era nessuna necessità.
Una discussione che per l’ennesima volta lascerà solo gelo.
Quello del cuore, quello di tutti questi cuori che si sono dovuti indurire, che hanno dovuto imparare a sopravvivere a quei fulmini che continuano ad arrivare nel bel mezzo dell’azzurro di un cielo di settembre.
- Felice
- Giorni di parole