Rassegna Li Curti – “Condannato a morte” con Orazio Cerino
Anno nuovo, appuntamento nuovo, emozioni nuovissime. L’11 gennaio ci ha regalato il ritorno della Rassegna Li Curti e come sempre le serate con Geltrude Barba non sono mai banali.
Confesso che ritrovarsi dopo circa un mese, ha dovuto un po’ rimettere a posto quelle sensazioni che eravamo abituati a vivere, ma che erano state interrotte dai festeggiamenti del Natale, del nuovo anno, delle nuove storie che il mondo ci racconta, spesso non gradite, ma ci sono.
E quando abbiamo dovuto aspettare di salire prima di entrare in sala, l’attesa ci ha coinvolti in maniera diversa, anche se argomenti di conversazione ce n’erano: troppi e non troppo piacevoli, ma c’erano.
Ma le sorprese non erano finite, perché in questa serata del ritorno, c’erano anche posti assegnati!
Ci accomodiamo e troviamo il palco chiuso, ai suoi piedi un perimetro con all’esterno sedie che fanno subito pensare ad una giuria, a una riunione. Ma in scena stasera va “Condannato a morte”, opera che il regista Davide Sacco ha tratto dall’opera di Victor Hugo del lontano 1829, “L’ultimo giorno di un condannato a morte”: ci sarà un nesso? Le luci si spengono, resta solo un intermittente bagliore ai nostri piedi, mentre dalle nostre spalle parte un fischiettare, sulla tenda del palco chiuso prende forma un’ombra…, cresce, si avvicina, la sua testa è rinchiusa in un cappuccio…
L’ombra ha il passo pesante, indica qualcuno tra il pubblico che è invitato a sedersi sulle sedie intorno al perimetro e non sa ancora se è fortunato o no per essere stato scelto… ma vengo indicata anch’io per cui vi dirò anche di questo. Nessuno parla, sembra che anche i respiri si siano fermati. Lui ha bisogno di altre persone…, quando le sedie sono tutte occupate, si abbassa sul pavimento per raccogliere cappucci, quelli che indossano i boia e in maniera molto poco garbata ce li lancia addosso, uno per uno. Siamo sempre più impreparati.
Si avvicina a ognuno di noi, un quadernino aperto su una pagina su cui ha scritto tre parole, che ci obbliga a ripetere: Condannato a morte. È il suo modo di coinvolgerci in quella follia che verrà rappresentata, la follia che vede un uomo uccidere un altro essere umano.
Quello che comincia subito dopo è uno spettacolo mozzafiato. Orazio Cerino, è il nome dell’unico attore in scena, quello che però vestirà i panni di tutti i personaggi della commedia. Maestoso. Lui è il prigioniero, lui è l’avvocato, lui è la giuria, lui è la guardia, lui è tutti e sta per diventare nessuno. Pochi metri quadri sono lo spazio che si concede per racchiudere un mondo di emozioni che ci trasmette attraverso cambi di tono, con il corpo, con il silenzio, con gli occhi piantati nei nostri, a scrutare emozioni che nascono dentro di noi, al momento sconosciute a noi stessi tanto le sentiamo grandi mentre il cuore batte e si ferma in maniera innaturale.
Amico di sventura è il microfono, su cui batte un dito che l’aiuta a scandire un tempo che diventa infinito e che allo stesso tempo si frantuma nel terrore di una fine imminente. Si alternano frasi veloci, in cui scorre tutta la rabbia per raccontare di un uomo che era “libero nello spirito con una mente che è diventata prigioniero di un’idea”, e respiri affannosi e soffocanti, a chiarire l’angoscia di un’attesa che è innaturale nella sua concretezza. Tutti dobbiamo morire, perché il sapere quando?, cambia in maniera così radicale ogni prospettiva? “…quale delitto ho commesso e quale faccio commettere alla società…” è la domanda che si pone e ci lancia, in questa sala sempre più silenziosa, sempre più attenta nel cercare di cogliere un qualcosa che ci dia una spiegazione, un motivo, una ragione per la quale noi siamo lì a guardare inermi quella vita che va verso la fine mentre ci sentiamo come gli stessi che hanno inflitto la pena.
Il coinvolgimento di chi è vicino alla sedia dell’imputato è ancora più grande. Loro sono chiamati ad essere le sue manette “fredde”, a correre come cavalli sul selciato di una Parigi lontana, anche se oggi più vicina che mai; “…la morte non cambia gli uomini, non quelli che muoiono…”
Il rimpianto degli amori che si lasciano, madre moglie figlia, la certezza di rendere altre persone orfane e vedove, come il constatare che si diventa assenti “…nell’unica memoria in cui avrei voluto vivere…”, quella di una bimba troppo piccola per avere ricordi di un papà che non ci sarà ad accompagnare i suoi passi nel mondo.
“…perdere la speranza è un dolore più grande di quello della carne…” , della lama d’acciaio cha taglia nervi e ossa. L’umiliazione di sentirsi abbandonati da tutti e restare soli in balìa di una folla numerosa e sconosciuta che chiede il tuo sangue “Per il bene dello Stato”!
Queste saranno le parole che saremo obbligati a ripetere anche noi, prima di indossare quel cappuccio da carnefice. Orribile sensazione! Quello Stato che da idea astratta diventa reale mentre pronunciamo parole che spesso usiamo, ma di cui non abbiamo nessuna coscienza reale. LO STATO SIAMO NOI e lo siamo per davvero. Lo siamo ogni volta che si decide del nostro presente che diventa immediatamente passato e per il nostro futuro che sarà il quotidiano di chi ci sarà domani. Lo siamo in maniera irresponsabile, lo siamo con superficialità, lo siamo per convenienza e ognuno di questi motivi e di questi modi è sbagliato, per questo ci sentiamo colpevoli. Colpevoli per quella vita che da secoli cerca di insegnarci qualcosa, che non abbiamo materialmente ucciso noi, ma che continuiamo a far morire con la nostra indifferenza, con la nostra ignoranza, per la nostra poca fede.
Quando le luci si accendono, vorremmo sentirci liberati, i cappucci sfilano in fretta dalle teste di chi li ha dovuti indossare e che a qualcuno ha nascosto anche lacrime di dolore, ma non ci sentiamo proprio così affrancati.
Carmela Novaldi arriva al centro del “finto” palco, quello dove siamo saliti un po’ tutti questa sera ed ha la voce un po’ “frenata” dall’emozione che ci ha accomunati. Orazio Cerino torna ad essere persona, ma non posso dire “qualunque”, perché non si è più così dopo interpretazioni e lavori del genere. Normalmente si dice che gli attori peschino dal proprio passato o dal quotidiano quello che poi dovranno riportare sulla scena, ma quest’esperienza è davvero troppo unica per averla in qualche cassetto della mente. E questo rende ancora più GRANDE la sua interpretazione, se poi pensiamo che l’aiuto maggiore l’ha ricevuto ovviamente dal regista, Davide Sacco, giovane di 24 anni, in un lavoro durato quasi un anno e che con il suo Avamposto teatro ha scelto di trattare temi sociali di grande attualità.
Loro sono legati ad Amnesty International che con la sua lotta è riuscita ad ottenere una riduzione del 40% della pena di morte nel mondo e l’invito è quello di partecipare alle loro campagne, perché una firma non è solo uno scarabocchio in mezzo ad altri. È la presenza di un altro essere pensante che ha dato la sua adesione ad un’iniziativa, che ha voluto difendere un pensiero anche se questo pensiero va ad agire a migliaia di chilometri di distanza. Noi abbiamo un peso e abbiamo responsabilità. Forse non ce ne siamo ancora assunte tante, non abbastanza, ma ne abbiamo. E sarebbe il caso di prenderne atto.
Il loro messaggio è legato a questi valori. Gioco e immaginazione possono servire per scoprire quello che non si sa, perché si può giocare anche senza divertirsi se poi il gioco ci regala crescita e domande; il bello non è sempre solo avere delle risposte, ma soprattutto chiedersi il perché di certe cose, il senso delle nostre esistenze, il fine della nostra vita.
Perfino Geltrude Barba, che viene a salutare il pubblico in qualità di Direttrice della Rassegna e persona meritevole di gratitudine per la capacità di dare spazio a giovani di così grande talento, rimane quasi senza parole e anche questa è una notizia.
Noi andiamo via senza cappucci, ma ancora un po’ silenziosi e pensierosi. I ragazzi sono riusciti nel loro intento. Ci hanno dato un compito, anche se era domenica e a scuola non si andava. È un incarico nuovo, diverso da quello che prevede un voto: è il nostro imparare ad essere cittadini, uomini responsabili, animali pensanti e non pascolanti. Una lezione da ricordare sempre, in ogni cosa che facciamo.
- Ciao Pino…
- “Dolore” di Anna La Valle
Aggiungo un commento arrivato dall’amica Angela Vitaliano in un’altra sede. Ma nasce per quest’articolo e dunque lo sistemiamo al suo posto.
Paoletta, sei grande, grande. Hai reso con le tue parole il senso più profondo che la rappresentazione ci ha trasmesso. Spero che chi legge e non era presente si renda conto di aver perso un’occasione più unica che rara: quella di sentirsi un essere umano . Umana è la commozione che ci ha preso, umana è la volontà di essere partecipe di un movimento di cambiamento di coscienza, ma umana è anche la considerazione che si deve avere per le vittime innocenti della violenza gratuita. Il problema è più complesso di quello che sembra proprio perché siamo ancora lontani da un mondo senza violenza, senza pena di morte, senza omicidi e quant’altro. Comunque concordo ancora una volta anche sulle tue parole che riguardano la rassegna Li Curti che seguo da qualche anno e che raccomando caldamente a tutte le mie amicizie e le mie frequentazioni. Il teatro è bello, è cultura e, soprattutto, non è un luogo. Mi dispiace che Cava ultimamente ha abbandonato la cultura in tutte le sue varie sfaccettature, cosa che non avveniva in passato e che non trova riscontro solo nei tempi di crisi che stiamo attraversando perché ho riscontrato che anche manifestazioni gratuite non vengono nè pubblicizzate né seguite. Però siamo pronti a dare giudizi da esperti quando siamo esperti solo del cambio canale con il telecomando. Scusa forse mi sono prolungata troppo e non sono stata chiara nell’esposizione ma io sono un carattere impulsivo. Ciao alla prossima e VIVA IL TEATRO! VIVA LA CULTURA!
Non scusarti, anzi. Sono contenta che nascano impressioni e sensazioni da ciò che si vede e si legge. Questo giustifica uno spettacolo come un articolo, perché diventano cose che lasciano il segno e non esperienze sprecate. Grazie ancora a te