Una vita a foglietti

Cinque giorni

Cava , 10/10/2002

Ma tu, quando ti trovi di fronte ad un problema che fai? Ti chiedi se è abbastanza attuale da considerarlo? Avere un figlio di che data è? Adamo ed Eva hanno avuto figli, da loro noi cristiani, discendiamo. E qualcuno disse un giorno “Partorirai nel dolore”. Ma quel dolore è uguale per tutti? Sto già sviando come al solito. Dio non c’entra, Eva non c’entra, la mela e il serpente nemmeno. Io voglio dire che ogni donna, da milioni di anni in qua, non ho idea di quante siano state, quando ha saputo di aspettare un figlio, ha avuto un’emozione. E se ne ha avuto più di uno, ha vissuto più di un’emozione. Ci siamo fin qui? Tutto questo, per motivi di comodità ha avuto bisogno di essere qualificato in due categorie. Si è felici alla notizia o non si è felici. Anche questo sembra abbastanza ovvio. Ma tra questo si e no, cosa c’è? C’è l’universo della donna. Ed è un mondo che a noi stesse donne, spesso è sconosciuto.

Guardi il calendario in modo alquanto distratto, cerchi di ricordare il giorno preciso del mese passato. Hai l’abitudine di legarlo a qualche festa se possibile, perché di segnarlo da qualche parte nemmeno l’ombra. Eppure stai sempre con una penna in mano … Quanto manca? 1 -2 – 3 – 4 …24. Qui ti fermi. Da un po’ di tempo a te va così. Ma 24 è oggi. Attimi di silenzio, anche di immobilità. Ti fermi a guardarti, a pensarti e questa è una novità ultimamente, non solo, ma ora non vuoi essere polemica. Rimetto gli occhi sul calendario, rifaccio il conto che è lo stesso di tanti anni, perché la prima speranza è di aver sbagliato. Ma sei sempre stata un asso in matematica, vuoi che neanche col ditino che scorre su quei grandi numeri, tu sia più capace di contare? Prima speranza andata in fumo. Siamo a 24. Nel cervello cominci a sentire dei pugni. Sono i pensieri che si affollano, ognuno vuole la precedenza sull’altro, come se la loro importanza dipendesse dal posto che occuperanno uscendo. Sono troppi, sfondano porte, portoni, cancelli, tutto ciò che trovano. Te li ritrovi in cortile, come bambini alla ricreazione (comincia l’attività inconscia), ma dei veri bambini suonano un’immediata campana di rientro. Sono i tuoi, quelli già fatti, che hanno trovato il loro posto, uno spazio. Quelli che hanno avuto dopo un’altra conta, un’altra situazione. Loro suonano, tu e la tua comitiva di pensieri impazziti ritornate zitti zitti in classe, come se già ci fosse per voi, pronta, la punizione.

Apro qui la parentesi del tempo che devo dedicare ad altro. Mestieri di casa, figli, genitori, fratelli, rotture varie etc …

Poi ti ritrovi sola. Ti scappa un “Finalmente” ma te ne penti subito. Il silenzio intorno significa di nuovo libertà per i prigionieri del mattino. Li avevo davvero dimenticati? Loro no.

– Mamma mi ammazza! – Non posso tenerlo – Non posso abortire – Non c’è lo spazio – Non ho soldi per crescerlo – Non sopporto l’idea di un’altra operazione – Dopo tanti anni ricomincia con i pannolini – Sarà un’altra femmina – La chiamerò Carlotta – Un altro cucciolo da infilare nel letto – Devi ricominciare a cantare canzoni per farla dormire – Bang bang …

Non ho le parole, non ho la forza. A chi ne parlo? Lui lo lascio stare, di colpi ne ha già tanti, e forse mi sbaglio. Persone intorno mi fanno richiudere la porta in faccia ai miei pensieri, ma in modo silenzioso, li rispetto.

Arriva un altro giorno. La notte la sorpasso. Se avessi dormito, niente da raccontare, una notte in bianco non si racconta. Per me che dormo anche in piedi è un brutto segno. Faccio tutto quello che ogni giorno serve per la colazione, i bimbi a scuola, ancora polvere e piatti da lavare e al solito etc … E’ tutto uguale a sempre, ma a me niente sembra uguale. Passo davanti al calendario, è iniziato tutto lì, lo guardo come un colpevole e intanto il giorno è il 25°. Appena il cervello va a folle, arrivano gli invasori. Ma come è stato, quando è stato? E vagli a spiegare che non serve a niente adesso pensare a questo, cercare di dirgli che non abbiamo mai tempo per noi, rubiamo degli attimi come ragazzini di 15 anni che escono con la “candela” e forse come loro siamo rimasti incastrati. Ma perché? Anni fa, quanti?, otto circa, guarda un po’ lo stesso giorno 11/10/1994 perdevo un bambino. Un bambino che mi aveva gettata nel panico, a cui si era ribellato più il corpo che il cuore. Per questo era rimasto, ma evidentemente quel corpo se l’era legata al dito e dopo tre mesi l’aveva ributtato via. Vedo le luci di quella sala d’ospedale, la notte che scendeva, i quintali di lacrime che non so dove ancora si formavano. Ma quando è finita, non serve niente. Solo una sala operatoria, pillole, dolore e poi il vuoto. Non è una di quelle cose a cui pensi tutti i giorni, ma sai che è una cosa che ti resterà addosso fino alla fine dei tuoi giorni.

E adesso? Adesso sarebbe normale dire – Lo tengo -, ma oggi cos’ho? Diciamo che non ho quasi niente. Un lavoro che traballa, siamo ospiti in casa dei miei, debiti  a non finire, la possibilità che mio fratello passi dal suo ufficio a casa. Un mare di guai combinati, anche aiutata in questo, ma cosa cambia. Il momento è critico, e vista l’assoluta deficienza che sembra ormai accompagnarci, abbiamo messo questa ciliegina? Cavoli che bravi!

Sono a pezzi. Ripenso alle parole di tanti discorsi. Perdere un figlio è terribile, ti lascia un vuoto … come fai poi quando scegli di tua volontà … Ma che ho parlato a fare! Perché? Non voglio mai giudicare mi dico, e quelle cose lì a chi servivano? Mi sono fatta bella perché io ho vissuto un dolore così? A volte sembra brutto essere fuori da certe esperienze. Fuori giri! Ecco la mia condizione quasi naturale.

Per fortuna vengo riassorbita dal quotidiano. Vedi come sto, per essere contenta di quello che mi fa impazzire di rabbia da quasi due anni, tutti i giorni o giù di lì.

Ancora bimbi, mangiare, lavare, pigiami, denti, dormire. La mia vita è un vero esplosivo. Vado a letto. Siamo perfetti. Io al centro, uno a destra, una a sinistra. Però continuo sempre a prendere i libri, baci a destra e a sinistra, brividi da allontanare, pollicioni da grattugiare, bacioni d’amore … e mi chiedo perché togliere la possibilità ad un altro esserino di venire qui, in mezzo a noi, sorbirsi una mamma pazza come me, sempre incasinata, ma piena di ideali, di paure, di tutto. Come un semplice normale essere umano. Questa notte dormo. Forse comincio a pensare positivo. Mattino, solito calendario, siamo a 26. Mi interrogo da sola – Come ti senti? – Ho un po’ di mal di testa – Buon segno – E la pancia? – Un po’, niente di particolare. Ok, ricomincio.

Al lavoro è più difficile. Sono sola, posso pensare. In verità non vorrei, ma non è più una scelta. Non mi sento io. Come dico sempre? Sono curiosa, le cose meglio saperle subito, almeno le affronti. Basterebbe entrare in farmacia, ma non lo faccio. Perché? Tante altre volte ho voluto sapere, perché ora mi tiro indietro? Mi piace quest’idea, mi fa paura? Non lo so. Mi sento uno straccio. Stasera gliene parlo. Serve a dividere la paura? No, si raddoppia. Io avrò la mia, lui la sua. Ma è già il pensiero di qualcosa da fare e un po’ mi solleva. Ci penso tutto il pomeriggio. Mi metto in discussione come se da questa mi decisione dipendesse tutta la vita. Qualcuno mi ha detto che noi decidiamo dove nascere, perché quella famiglia, quel posto, ci forniranno gli elementi per la nostra crescita interiore. E chi sono io per dire ad un’anima che mi ha voluta come mamma – Non ti voglio, hai scelto un momento terribile per arrivare –  Ma hai visto bene come siamo conciati? – E tu ci rovineresti di più o saresti la spinta giusta per uscirne fuori? – Questi sono i miei pensieri.

Mio figlio mi chiama per i compiti. Sembra una barzelletta:  “Verbalizza il ciclo della vita”.

La mamma è incinta. Nasce una bambina. Diventa una ragazza. La ragazza diventa mamma. Ma ce l’avete davvero con me?

Mi scappa una risata isterica. I miei figli si convincono forse definitivamente che hanno una mamma da rinchiudere. Per loro fortuna vado a lavorare.

Lì ritrovo la depressione. Sono a un pessimo livello, non mi alzo e non parlo nemmeno con un cliente col quale normalmente discutiamo per ore. Mi guarda :

– Cos’hai? –

– Non lo so neanch’io –

– Tipica risposta che do quando so perfettamente cos’ho e non lo voglio dire. –

– Hai ragione, ma forse non voglio o non so parlarne –

Andiamo avanti con le solite cose, arriva qualcun altro, i discorsi si intrecciano su vari argomenti. E’ passata. Vado a casa, quando sono pronta per andare a dormire, mi fermo in cucino e dò la comunicazione. Cerco di avere un’aria abbastanza distratta, non so se per non farlo impressionare, o per non confessare che ormai sono tre giorni che mi tengo sul ciglio di un burrone. E sono molto stanca. Gli argomenti li conosco, i giorni, quanti, in genere 28, ma ormai da diversi anni sono passati a 24, quando hai avuto altri ritardi. Gi uomini non ricordano questi dettagli. 3 volte in tutto, sai com’è andata vero? Però 28 potrebbero essere, ci sono altri due giorni. E’ vero. La differenza è che io ne ho già subiti 3 e gli altri forse me li volevo risparmiare, forse volevo sentirmi dare la spinta per entrare in quella farmacia, forse … non lo so cosa volevo. So che qualunque cosa non mi darà pace. Vado a letto. Sonno agitatissimo, dolore tremendo alla pancia, la schiena, mi sveglio sperando nei soliti sintomi, ma so già che non c’è niente. Forse li ho addirittura immaginati. Di nuovo l’alba. Più che dalla luce, quasi non ce n’è, la pioggia è regina in questo giorni, la sento dalla stanchezza che ho ormai di stare a letto. Appuntamento col calendario, siamo a 27: Stavolta posso guardare un’altra persona che condivide la mia ansia, ma so che non la diminuisce. Solito tran – tran. Questa giornata sarà la più lunga, lo so. E’ l’ultima spiaggia. Sembra esagerato parlare così. Un bambino può essere un dramma così grande? Mi vengono alla mente tantissime cose. Tra le altre, una frase di mia madre mentre mi raccontava di quella ragazza napoletana, credo, che ha buttato dal balcone il bambino di 6 mesi. La sua convivenza con i genitori, la depressione. Io non avevo commentato all’epoca, perché avevo immaginato cosa può significare vivere una situazione “difficile”, dovendo dipendere dalla famiglia. Quanti rospi da ingoiare, quante umiliazioni da subire. E questo non deve significare che i propri genitori siano dei mostri. Non è questo. E’ che dei problemi non si affrontano sempre allo stesso modo e chi ha sbagliato, è naturalmente portato a subire. Ma la forza, la capacità di sopportazione è diversa per tutti. E in un attimo, si può commettere una follia per la quale pagherai per tutta la vita. E quanto è diverso buttare dalla finestra un figlio e lasciarselo strappare dal grembo? Dio che situazione. Mi sforzo di alleggerire un po’ la mente. Mi sembra di camminare con un palazzo che mi pesa in testa. Quanti anni fa Oriana Fallaci scriveva la sua “Lettera a un bambino mai nato”? Ho letto quel libro forse alle medie e lo ricordo ancora. Non lo avevo accettato allora, mi era sembrata un’ingiustizia chiedere ad un povero esserino di resistere a tutto mentre viveva completamente ignorato dall’esterno. Però le nostre autodifese sono tante. Naturali e terribili. Mi scopro con le mani che si avvicinano alla pancia e la mente le tira via subito. Cosa faccio, lo coccolo? Non so se c’è. Ho paura. Un anno fa ho subito un intervento uguale al parto cesareo, ho sofferto in maniera vergognosa. E mi dicevo che le due volte precedenti almeno avevo portato a casa un fagottino. In quell’occasione forse avevo salvato la pelle, ma sembrava più inutile. E ora? L’avrei rifatto. Penso alla mia età. Ho dieci anni più della prima gravidanza. Il mio corpo ce la farà? Mi sto già cercando delle scuse. Ripenso alle persone che conosco e che hanno desiderato un figlio per anni senza averlo. E se a me arrivasse? Perché non ho una casa, perché non può essere solo il cuore a decidere? Tutti dicono che nella vita bisogna essere pratici. Ma anche questo rientra nei casi? Un pensiero comincia a chiedere strada. Mi sembra il più forte perché esce dalla fila, scavalca gli altri per accelerare il suo turno. TIENILO. Lo prenderei a pugni, ma so che è quello che forse vincerà. E allora arrivano, come se gi appartenessero, i sensi di colpa. Colpa verso gli altri due. Cosa diranno? Cosa penseranno? A cosa dovranno rinunciare, più di quanto non fanno? Tra un po’ non potranno neanche più uscire dalla cucina a giocare, un neonato ha bisogno anche di silenzio. Ormai non c’è più niente di intero dentro di me. Sono passate ore e ancora ne mancano per la conclusione di questo supplizio.

La sera non vado a letto. Pensiamo ad alta voce, ma non tanto per non farci sentire.

–          Se avessimo una casa non mi importerebbe di niente –

–          Ma non l’abbiamo –

–          Come ti senti? –

–          Normale  –

–          Domani siamo a 28? –

–          Si –

–          Adesso non ci pensare –

So che lo dice e non ci crede. Probabilmente saremo in due a non dormire. Ci abbracciamo. Come sempre sarà qualcosa da affrontare in due. E’ un pensiero che mi consola. Mi scappa l’ultima frase.

–          Se è vero che nella vita bisogna lottare per arrivare in un posto, noi cosa dobbiamo fare, scalare grattacieli? –

Ridiamo, ma la mente corre davvero alle montagne che già ci siamo costruiti sul cammino. A quelle passate, a quante ancora ne restano. Questa forse sarà l’ennesima. Ma già questo modo di parlare mi fa pensare che la decisione è presa. La cosa più difficile sarà dirlo agli altri. Penso a Rosanna, a quando mi raccontava che quando vede donne incinte, o a carrozzine con neonati, le viene la pelle d’oca. Immagino la sua frase. – Sei pazza! – Forse è così. Ma ora non ci penso più. Il futuro riserva sorprese e in fondo voglio conservare quell’ottimismo che sempre mi accompagna. Se non ne avessi avuto, avrei abbandonato questo palco anni fa. Ma questo è un dono che mi sono regalata. Chissà cosa avrà nel suo bagaglio questo fagottino che probabilmente già abita in me. E così mi tocco piano piano, come per salutarlo. E’ un gesto di benvenuto … Quando vengo sommersa dai soliti abbracci, mi difendo la pancia, ma poi penso che se c’è, non sarà dispiaciuto di tanto affetto.

Mi distendo, mi sento tranquilla. Questo è un altro mistero dell’uomo. Ma è il mistero della vita, la sua grandezza. E forse si sta ripetendo proprio qui, in questa stanza, in questo letto, dentro di me. Due lacrime scendono dal mio sorriso. Ma non sono di dolore. Domani vedremo un uovo giorno, ora è solo giusto dormire tutti abbracciati. In un letto talmente pieno d’amore che potrebbe crollare.

Solita alba fisiologica. Però c’è qualcosa di diverso. Mi alzo e vado in bagno, anche se so già cosa troverò, lo sento. Così finisce tutto. Rimango immobile. Niente bambino, niente paure, niente. Neanche gioia. Vado a svegliarlo, lo dico subito. Un sospiro. E’ finita. E c’è di nuovo la colazione, i bambini, i mestieri, il lavoro. Cinque giorni passati ad esaminare la vita, le ragioni, i sentimenti, a soffrire, a gioire,  immaginare, a sperare e poi niente più.

Comincia un nuovo giorno. Nessuno ha saputo, né saprà mai cosa sono stati questi lunghi 5 giorni. Tanto è durata nella mia fantasia la vita di questo bimbo mai nato, che non mi ha mai cercata, o che forse è stato qui intorno, vicino a me, a soffrire con me. E alla fine ha forse deciso che era meglio così. Non saprò mai com’è andata, come non saprò niente di quell’altro bimbo/a che mi ha tenuta compagnia per un po’ e poi è andato via.

Quante cose sono sconosciute agli occhi degli uomini.

2 thoughts on “Cinque giorni

  1. Carmine

    Senza parole.. non ora, forse mi verranno più in là.

    Il problema è che l’ho letto tutto d’un fiato e l’emozione e le sensazioni che trasmetti mi destabilizzano.
    :*

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