I forti e i deboli
Cava , 2002 o 2003? Non è un errore, è solo un momento imprecisato di un discorso sempre troppo attuale
– Stasera sei dei nostri –
– Ma a che ora? Devo prendere Camilla al catechismo, non ho tempo per cambiarmi, vengo in jeans –
– E che importa? Basta che vieni –
– Va bene. Cercherò di essere puntuale –
Chiudo e penso che anche stasera i programmi sono cambiati. Passata la possibilità di tornare presto a casa, riposarsi un po’. O meglio. Anticiparsi qualcosa perché siamo sempre in ritardo. Va beh! E’ la serata conclusiva di una rassegna sulla Palestina. Già sabato ci siamo stati: presentazione di un libro di fiabe. In verità sono rimasta piacevolmente sorpresa. E’ per questo che non ho rinunciato subito. In fondo sono curiosa. Arriviamo pochi minuti prima che si inizi. Ci saranno letture di poesie, la signora è già pronta e concentrata.
Prendo posto da sola, curiosa, ma consapevole della mia poca conoscenza dell’argomento.
Le luci si abbassano, parte la musica. Le parole arrivano profonde, sentite. Mi piace la partecipazione dell’attrice. E poi una realtà esplode in quelle frasi.
Rabbia, amore, umiliazione. C’è molto in quelle poesie dettate da una situazione che non basta definire difficile. Ritrovarsi senza una terra, senza più libertà né diritti. Dei profughi in casa propria, dei “cani” sulla propria terra.
E ci sono le descrizioni di ciò che noi tutti possiamo guardare ogni giorno, ma che spesso è così scontato da non essere visto.
C’è il profumo della terra e dei fiori, il calore del sole che in quelle terre brucia più che altrove e il sudore che provoca dolore e umiliazione. Il tempo che passa solo ad aspettare. E mi sento rapita da tanta bellezza, ma soprattutto da tanto dolore.
Eppure senza di lui, quante cose resterebbero senza parole? Sono strane considerazioni, ma credo che davvero l’uomo, nei momenti più difficili, si guardi intorno e dentro in maniera diversa, più completa, totale. E noi che abitiamo chilometri lontani da tutto questo, ma anni luce nei sentimenti, come dobbiamo sentirci? I pensieri mi sfuggono da tante crepe apertesi nella mente. E’ l’obiettivo di serate come queste? Ho già detto che conosco poco e niente di queste realtà. Sento della Guerra dei 6 giorni nel lontano ’67. Avevo due anni. Da allora ho vissuto metà della mia vita ignorando quanto succede in quella e in molte altre parti del mondo, i miei principi sono diversi da chi allora è stato profugo o vittima o prigioniero. Noi guardiamo immagini in televisione e ci chiediamo dov’è la normalità in quelle città dove vediamo solo macerie. Ma lì continuano a nascere bambini, e a morire. Uomini e donne lottano contro tutto ciò che è razionale, continuando a provare sentimenti di amore, voglia di avere una famiglia e creare un futuro. E chiedono aiuto. A noi che ci lamentiamo della nostra vita. Noi che abbiamo una casa, vediamo i nostri figli crescere, andare a scuola, comprare giochi e vestiti. E’ difficile.
E mi viene ancora più su, fino alla gola, un senso di impotenza e di ingiustizia. Da qualche parte c’è un motivo, politico, economico, religioso, culturale, che ha determinato tutto questo. Ma oggi, ora, mi viene solo in mente quel dolore, quelle facce, quella rabbia. E quando le luci si spegneranno e la musica sarà finita, riprenderemo la nostra vita di sempre, dimenticando o accantonando questo dolore che non ci appartiene, che non proviamo sulla nostra pelle e allora mi tornano in mente le parole di quello scrittore: “Portiamo in giro la nostra la nostra angoscia, perché tutti possano capire che un giorno, ovunque, il più forte può calpestare il più debole”
- “Domani è un altro giorno”
- Cinque giorni