Una vita a foglietti

La donna giusta – Sàndor Màrai

Alle 9,20 di un lunedì mattina ce l’ho fatta. Ho finito di leggere “La donna giusta” di Sàndor Màrai.

Lo specifico perché ci ho messo tanto tempo, perché l’ho iniziato con delle premesse che non ritrovavo e che, inconsciamente, sapevo che nascondevano ben altro.

Un libro, quando è un vero libro, è la rappresentazione cartacea di chi lo ha scritto.

Leggevo quelle pagine e mi chiedevo chi fossi, tu, Sàndor Màrai, di cui non so nemmeno distinguere il nome dal cognome, di cui mi sono accertata anche del sesso. Mancanze che confesso spudoratamente perché sono la pura verità. Perché di pause me ne hai date parecchie. Io pensavo che fosse mia pigrizia, ma invece eri tu che mi obbligavi a fermarmi, a prendere appunti, a lasciare dei segni come Pollicino nella foresta, per non perdermi.

Come quando ho dovuto riconoscere il tuo grande rispetto per le donne, perché hai saputo cogliere sfumature nel loro mondo che a volte, noi stesse, non riconosciamo.

E poi quella determinata voglia di dare a ognuno un ruolo, quel non far passare nessuno come una comparsa. Comparsa lo si diventa, ma per scelta. La vita sempre ci assegna un compito. Saperlo riconoscere e portare a termine è il nostro dovere.

Tutto è stato “strano” in questo nostro incontro. Dal tuo essere un libro sgualcito, a cui ho dovuto mettere dello scotch per non perdere i pezzi; al non avere un segnalibro quando ho cominciato e ho dovuto chiedere un pezzo di carta.  Pezzo di carta che ho fatto a pezzi lungo tutto il cammino, mentre sottolineavo le mie briciole, mentre segnavo i passi e provavo a raccogliere sensazioni e pensieri che ancora dovevano compiersi.

Uno che “produce” libri abbastanza in serie disse una volta che da trafiletti di cronaca nera, escono fuori storie che meritano di essere sottolineate perché la rabbia di un momento racconta il fallimento di una vita: la morte dunque cos’è? Un lento mostrarsi in ognuna delle cose che ci accadono? E quando arriva ci lascia marcire o ci permette di rinascere? Questa domanda me la sono posta quasi un mese fa, in un appunto a volo. Oggi rispondo con certezza: uno “scrittore-uomo”, non muore mai. Màrai è morto quasi da trent’anni, ma il suo pensiero, la sua visione mi è stata spiegata ancora oggi, adesso, in questo lungo incontro che abbiamo avuto. Come una lezione a scuola, come un incontro sulla panchina di un giardino pubblico. Come un anziano che spiega a un bambino le esperienze vissute e le sue “verità”.

“La donna giusta” è un libro d’amore? È un libro sociale? È uno scontro di classe? È un racconto politico? È lezione di vita? È un libro di storia?

È tutto questo. In quale ordine non lo so, ma ci trovi tutto. Poi gli dai la rilevanza che vuoi, ma c’è di tutto.

In alcuni momenti provavo a trovargli dei difetti, delle situazioni che sembravano ripetersi, come le ambientazioni o delle frasi ripetute più volte, ma anche queste erano solo scuse banali.

Il contenuto di questo libro è talmente ricco, da non potersi perdere in nessuno di questi miseri dettagli.

A differenza di tante belle cose che oggi leggiamo e che sembrano lavate con la candeggina talmente sono ripulite. Tanto pulite da non aver nessun contenuto!

Spunti: “Mi sono innamorato perché nella mia famiglia non c’era amore”. Vogliamo parlarne? Non lo farò, vi lascerò pensare e riflettere, così come mi sono sentita obbligata io a farlo.

“Il Signore mi ha colpita duramente, ma allo stesso tempo ha voluto farmi un dono rivelandomi questa verità: non esiste la donna giusta… esistono persone e in ognuna ci sono scorie e raggi di luce…”

“Mia madre desiderava per me questo pericolo! Forse aveva paura di un male peggiore: la solitudine”

“Era preoccupato per la cultura… noi crediamo che la cultura sia se uno sa tante cose a memoria o se fa una vita raffinata… Invece è un’altra cosa… e lui era preoccupato per quest’altra cosa”

Così è andato avanti il nostro incontro. Come persone che si incontrano e si svelano e uno parla e l’altro acconsente, intuendo che accetta quanto detto anche se non sempre comprende completamente, nel profondo. Perché noi la borghesia, il comunismo, il proletariato, li abbiamo letti sui libri, non li abbiamo avuti nelle nostre vite, non abbiamo sentito il rumore delle bombe e la puzza dei morti intorno. Non abbiamo mangiato la terra della nostra Patria pensando di doverle dare un sapore unico, così come una deportata aveva mangiato l’erba di Auschwitz e le aveva dato il sapore del cioccolato. Noi abbiamo studiato le lotte sociali e la pretesa di uguaglianza, ma non siamo stati minacciati e torturati per passare da nullatenenti a nuove espressione di potere e repressione. Perché l’uomo segue dei bisogni che a volte sono solo istinto di sopravvivenza, che poi diventa sopraffazione e tralascia quel patrimonio di conoscenza e storia che invece andrebbe tutelato. E si dice che dovrebbe essere per tutti, ma davvero tutti abbiamo la necessaria sensibilità per farlo?

Noi siamo molto più colti sul consumismo, quello che lui ha invece solo sfiorato ma quanto ha visto gli è bastato per capire in che direzione saremmo andati.

Eppure, nonostante la denuncia forte, dettagliata, esauriente, non c’è traccia di rabbia.

Il “signore” che è in lui, quella figura che vuole tutelare non in quanto ricco di cose, ma di passato vissuto conosciuto e tramandato, non si smentisce mai. La coerenza con cui racconta il suo pensiero, quella vita, è la lezione più grande che colgo. Facile lasciarsi sempre prendere dalla voglia di rivalsa. Molto più difficile essere signori dentro e capire che nulla al di fuori di noi ha un valore se non trova un suo riscontro nel nostro essere.

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