London
Londra. Con chiunque parli ti sentirai dire che la conoscono, che hanno l’amico, la sorella, il cugino, l’amico dell’amico, il parente del parente che vive lì. Londra dunque alla portata di tutti, Londra senza segreti.
E quando arrivi lei non ti delude. È bellissima, immensa, maestosa come una regina che ti accoglie nel salotto del suo castello per offrirti un thè con pasticcini annessi.
Londra è una città che non vuole nascondere nulla di ciò che possiede. Tutto è alla portata di tutti, ti mette in condizione di girare in fretta e facilmente per quelle immense “Street” che hanno palazzi mozzafiato, monumenti maestosi, le Guardie a cavallo con le giubbe rosse che non li fanno mai mimetizzare, le lunghe code rispettose, la fila ai marciapiedi sotto il monito del “wait”, i ristoranti sempre pieni, cucine da ogni parte del mondo, bar dove cercare una birra, un sidro, un whisky, a seconda dell’ora e delle preferenze. Per quello che vuoi. Tu chiedi? Londra ti dà.
E tu giri in quelle strade stracolme di gente di ogni razza, di ogni colore, con tanti colori e anche in quelle meno trafficate, quelle più riservate, e credi di aver capito e visto tutto, ma non è così.
Londra si fa vedere, ma non è detto che si faccia prendere.
Non è una cosa che capisci subito. Non te ne accorgi mentre giri sui suoi bus a doppio piano che ti permettono una visuale magnifica, ma che accolgono il doppio delle persone; non te ne accorgi quando, presa dalla voglia di vedere tutto, scopri che è arrivata la sera e non ti sei fermato neanche per mangiare; non te ne accorgi fino a quando non rimetti piede nella tua terra e ti accorgi che quel tempo che volevi dedicare e dedicarti con qualcuno, Londra se l’è rubato senza crearti il minimo sospetto.
Quello che ti resta allora è lasciar passare un tempo, una parentesi che ti renda il film di quanto è stato, nella speranza di poter capire che cosa ti regalava quell’immensa città: mentre tu credevi di “conoscerla” lei in realtà ti stava raccontando un’altra storia.
E parto dall’inizio, da un aeroporto che mi mancava da decenni, da quel rullìo sulla pista di lancio, quel vuoto che ti sale per un solo attimo allo stomaco fino a quando non ti accorgi che le case sono diventate delle piccole lucine in lontananza e il buio avvolge tutto.
E quello che è il mio viaggio diventa un viaggio doppio. Vivo il mio e ne immagino un altro. Guardo la gente intorno a me, ascolto la storia di un ragazzo che ha forse gli stessi sogni di tanti altri, ma con l’amico che lo aspetta, perché “…non è facile arrivare a Londra la prima volta e non sapere dove e come andare”. Io ci penso invece che tu sei arrivata sola, con la tua immensa valigia piena di cose ma soprattutto di tante incognite. Come sei scesa nel buio di questi immensi spazi, con queste migliaia di persone che spuntano ovunque, efficienti o rumorosi, colorati o anonimi…
Io guardo e non ho spazio per le mie impressioni, voglio cercare le tue, quelle che hai lasciato qui arrivando con il tuo di bagaglio, con le tue di paure, con i tuoi sogni. Ma ancora non li trovo. Allora fotografo immagini nella mente, scavo gallerie dentro cui conservare tutto, sperando che al momento opportuno ritornino.
È passata la mezzanotte, King’s Cross. Hai detto ci vediamo lì, come se potesse essere facile. Immensità: stazione di smistamento generale. Qui puoi chiedere ad una persona per strada di farti fare una telefonata: ti danno il loro cellulare, sentiamo la tua voce. Ma ancora non è fatta; i negozi che indichi sono parte di catene, ce ne possono essere tanti in uno stesso posto! Ma ormai manca poco, il tuo cappello rosso sbuca e il tuo sorriso pure. Dal primo abbraccio veloce avrei dovuto intuire di che tempi avremmo goduto, ma poi sei finita addosso a papi, e lì ci sei rimasta.
Sono le braccia che ti tenevano mentre ti cantavano quelle ninne nanne improvvisate, quelle mai uguali, quelle che erano solo per te. È il posto dove hai dormito tante volte, è il tuo luogo sicuro. È l’uomo della tua vita. Da sempre, per sempre. C’è tanto in quell’abbraccio, ma di fondo dura troppo poco anche quello.
Valigie ticket metro fermate parole a raffica e casa. Casa. Stanza. Perché qui non si ha una casa propria e noi lo sapevamo bene. Avevamo le foto, i racconti, tutto. Ma erano parole. Poi abbiamo visto e confesso che è stato difficile realizzare in quanto poco spazio si possa vivere. Hai visto la sorpresa nei nostri occhi, ma ti assicuro non è mai stato un rimprovero. Mai.
Avevamo voglia di sapere di parlare di raccontarti, ma il tempo a Londra non è gratis, costa caro, come tutto il resto e allora si deve dormire perché la sveglia suona presto. Mi sono stesa al tuo fianco, ma mentre io sentivo il peso di una stanchezza totale, ho visto che tu ancora aprivi un quaderno, preparavi il discorso per il gruppo al mattino. Erano le tre e ancora lavoro e la tua sveglia è alle 5.30! Mentre il sonno vinceva le mie ormai deboli resistenze, pensavo a come un tempo ero io ad avere un libro in mano accanto a te. Io a leggere, tu ad ascoltare. Ma il tempo passa e quello di Londra di più.
Arriva presto il suono della sveglia, ti alzi e ti vesti, mangi i dolcetti che ti abbiamo portato, quelli che sapevamo i tuoi preferiti. Li raccogli in un tovagliolo e ne porti qualcuno con te. Mi piace questo gesto, mi fa credere di averti preparato qualcosa di personale. Poche parole, sei già accelerata, ci sentiamo, ci vediamo a tale posto, vi scrivo cosa dovete fare… e sei già fuori. Non mi riaddormento, come sempre accade. Resto in questa piccola stanza, guardo con maggiore attenzione i dettagli della tua vita, mi sembra quasi di toglierti dei segreti, ma non è con occhi indagatori che lo faccio. Sono solo occhi di mamma.
E così iniziano i nostri giorni londinesi. Londra ha un’aria che non conosco perché non ci sono mai stata, ma la riconosci al primo colpo. Il cielo ha un colore tipico, un grigio che cambia continuamente. Puoi avere la pioggia e dopo poco il sole, c’è sempre di tutto. C’è il vento freddo e i cappotti svolazzanti, come pure temerari con abiti leggeri e piedi scalzi: come dicevo c’è tutto.
Trafalgar Square, National Gallery. Entri e ti ritrovi davanti ai Girasoli di Van Gogh e poi Rubens, Caravaggio, Canaletto, Van Dick, Velasquez, Monet, e quanto di più bello puoi ammirare. E il tempo corre e tu hai iniziato a correre, perché lo senti che c’è tanto da vedere, tanto da fare e le lancette vanno via spedite. E anche per strada non puoi essere lento, il flusso di persone non te lo consente. Ai semafori pedonali, c’è addirittura il timer che ti mostra i secondi che ti restano prima che i mezzi pubblici e le auto inseriscano la prima e partano, incuranti di tutti. I semafori si rispettano.
Nelson lassù in alto, cantanti di strada che mi regalano, guarda caso, l’Alleluiah di Cohen, un funambolico Maestro Yoda è sospeso nel vuoto, mentre un enorme Pikachu sta seduto nei pressi delle scale. E gente che mangia, ride, scatta selfie, segue guide e corre…
Big Ben ponti sul Tamigi, Westminster e uno squarcio di sole buca le nuvole per regalare una luce diversa e improvvisa che cerco di catturare in una foto, perché anche lui è svelto a sparire. Non sono tante le occasioni che abbiamo.
Ruota panoramica, giostra dei cavalli di un’epoca lontana, e gente che si muove.
Gironzoliamo persi e presi dai fiumi di gente che affollano le strade. Da lontano un cavallo, una giubba rossa, White Hall. Ci avviciniamo, scatto la classica foto e guardiamo il soldato a piedi che si muove tra i due colleghi a cavallo, andando prima a bisbigliare qualcosa ad uno e poi all’altro, con lo stesso tempo, lo stesso ordine secco e poi con passo pesante raggiunge una guardia all’interno, sbatte i tacchi si riallontana e si mette nella sua definitiva posizione di immobilità. Gambe aperte e ben piazzate al suolo, testa dritta e lì il tempo si ferma. Per loro. Per noi no.
Ma ora ne siamo contenti perché abbiamo appuntamento con te. Nuovi giri, pullman, metro, casa, ritorno, zona Angel e arrivi tu. Mangiamo qualcosa. È la prima volta che possiamo raccontarci qualcosa. Ho aspettato mesi per dirti di persona delle cose che al telefono sarebbero state troppo grandi per passare nei piccoli fili che ci tengono in contatto. Ma pensavo che ci avremmo messo di più, invece Londra ha ristretto anche le spiegazioni. È bastato poco: qui il tempo corre, non scorre mai.
Ci ritroviamo al bar con i tuoi colleghi amici. Di nome li conosco tutti: Tom Bianca James Lucy Hakar…, tanti. Loro conoscono noi e ci accolgono con grandi sorrisi. Una birra, due e in mezzo ad una musica assordante partono conversazioni in italiano, presunto inglese, reminiscenze spagnole. C’è di tutto, in fondo siamo sempre a Londra.
Quando usciamo e ci avviamo verso casa sembra che finalmente anche lei si sia un po’ calmata. Gente ce n’è sempre, solo un po’ di meno. Il passo, forse perché consumato dai tanti già fatti è un po’ più lento, ma ora non abbiamo fretta. Siamo insieme e passeggiare nella fredda notte inglese è bello.
È già iniziato un altro giorno dal calendario, ma il nostro non è ancora finito per cui si è già in debito di ore su quello successivo e ci sarà un prezzo da pagare, ma lo mettiamo in conto.
La scena del venerdì mattina è uguale a quella del giorno prima. Sveglia con i lampioni ancora accesi per strada, di corsa a fare la doccia vestirsi e sei di nuovo sparita. Il dubbio che tutte le cose che sognavo di dirti me le riporterò a casa, comincia a prendere forma, ma spero di sbagliarmi.
Venerdì giornata programmata. Zaida e Roberto, amici di una vita e che amici si riveleranno ancora una volta, ci danno appuntamento alla fontana di Trafalgar Square, posto che è ormai un po’ il nostro crocevia e per tutto il giorno ci accompagneranno in un tour tra Tower Bridge, Carnaby Street, China town e il suo capodanno in corso, per finire a mangiare noodles in un ristorante affollatissimo, con annesso tentativo di utilizzare bastoncini, miseramente fallito, e lì di nuovo tutti insieme.
Siamo ad un passo dal sabato, torniamo distrutti ma sembra che qualche sera insieme ti abbia fatto ricordare vecchie coccole. Un massaggino alla schiena, ai piedi… Ti trovo particolarmente tesa, il conto che abbiamo pagato fino ad ora ci ha mostrato finalmente in cambio qualcosina. Cerco di esserti utile in quello che non puoi avere mai. Ti prendo i piedi e te li scopro stanchi, arrossati. Piedi di chi sta sempre in movimento, piedi che faticano. Vorrei che questo sollievo, che ti fa quasi addormentare, ti rimanesse anche in un cassetto da poter tirare fuori quando non ci sarò, ma non so se ci riuscirò. E si fa notte.
Prima dell’unico tuo giorno libero passiamo da Buckingham Palace, Green Park con gli scoiattoli e i fenicotteri, per ritrovare le statue di Gandhi, di Churchill fino a Saint Paul, immensa e bellissima, che ci regala anche un matrimonio inglese con tanto di autista in livrea, damigelle e uomini in frac. Che chic!
Ma oggi c’è ancora spazio per Camden town, posto dove di spazio ce n’è davvero poco. Zaida ci porta in questo quartiere che è un concentrato di mondo. È colore, è musica, è follia, è cucina messicana vietnamita italiana spagnola… mai sentiti tanti odori tutti in una volta. Ma è anche alta sartoria, è lavorazione di cuoio, è un hand made su tutto. Scarpe magliette dipinte come vuoi dove vuoi e personaggi di ogni tipo. È una strada affollata, una vecchia stalla, come ci ricordano le sue statue dei cavalli di legno, ma è anche il sole tra i rami dell’albero che tentano di nascondere il fiume che scorre sotto il ponte in legno. Immagine di calma e delicatezza, di tranquillità e pace ma che come un flash dura davvero poco. Dopo c’è altro.
Una confusione totale, fino a che puoi incontrare il negozietto con la statua di Buddha il profumo dell’incenso le sciarpe di meraviglioso cachemire e la musica che viene dall’altro lato del mondo, o forse proprio da un altro mondo e mi accorgo che lì il mio cuore il mio sangue acquistano un ritmo normale, rallentato. Una frenata brusca, una capanna al riparo dalla tempesta.
Avete mai visto il cuore cambiare? Proprio vederlo, come se vi foste accomodati solo con gli occhi di fronte al vostro petto e lo aveste visto mentre si toglieva il cappotto bagnato e si fosse sfilato le scarpe sporche di fango. Un cuore steso sul divano, per godere di una pace che non sapeva neanche di aver perso. Camden è anche questo. Ma non vi aspettate di capire e io non ho la pretesa di sapervelo spiegare appieno. È uno di quei posti che non basta “vedere”, perché in realtà lo devi proprio “sentire”. In ogni suo aspetto. Fino al bar in cui si guarda Inghilterra Francia di rugby stramazzati in un divano con una birra e dove dopo un’ora si prepara la serata hard metal rock. Dove vedi la signorina con tacchi minigonna gambe nude e altre con stivali da dark da almeno venti chili tra zeppe e borchie che non potresti immaginare calzati, ma che invece camminano davanti a te.
A Camden non esistono pregiudizi, non si parla una lingua, non ci sono uomini e donne, non ci sono donne e donne, non ci sono uomini e uomini, non ci sono regole. C’è vita. E ti deve bastare.
Tornare da Camden Town, salutare l’Eros al buio di Piccadilly e passeggiare poi a Regent Street, ha un che di teletrasporto, come un viaggio nel tempo e nello spazio, ma qui ogni posto ha la sua vita, la sua storia, la sua realtà. E noi continuiamo a guardare, a incamerare e ad aspettare te.
Che spunti dalla massa metropolitana con l’inconfondibile cappello rosso la sciarpa che ti copre tutta e la camminata saltellante. Un saluto e scopri che quasi alle nove di sera c’è ancora un H&M aperto, ne puoi finalmente approfittare per comprare una suit e neanche il tempo di realizzare sei già dentro. Zaida e me, che abbiamo fame, ci dileguiamo per cercare un posto dove mangiare e lasciamo papà con te. Errore gravissimo.
Noi il ristorante lo abbiamo trovato, abbiamo prima aspettato, poi mangiato la pizza, poi aspettato ancora, ma di voi due neanche l’ombra… Ti sei praticamente scontrata con la chiusura del negozio senza ricordarti del tranello del tempo di Londra, quello che scorre veloce, che ti ruba qualcosa ad ogni giro di lancetta.
Brutto modo di ritrovarsi, è lì che ci ricordiamo che di fondo noi siamo sempre i genitori e tu sei e sarai sempre la figlia. Noi diciamo la nostra, tu cerchi di dire la tua. Non siamo poi così diversi, anche a migliaia di chilometri di distanza. E, pure se in quel momento non mi è piaciuto, a ripensarci ora non me ne pento.
Perché da discussioni nascono confronti, si scuciono pezzi di corazza e qualcosa filtra.
Troviamo un altro ristorante, voi due dovete ancora mangiare in tutto questo, mentre Zaida si è avviata per il suo più lungo rientro a casa. Sei così stravolta che non ci aiuti neanche con il cameriere, ma alla fine, come sempre, ritorna la calma. Noi vogliamo farti vedere cose che a te sfuggono, completamente presa come sei dai ritmi indiavolati che conduci; tu cerchi di spiegarci che non hai molte vie d’uscita e in realtà noi comprendiamo, ma non è in quel momento che capirò davvero cosa ci vuoi dire.
Ma il caos non è finito perché è l’una di notte e si deve preparare una partenza per Sheffield un’altra per il Texas e mancano valigie e panni puliti. Si credetemi. Allora ci fermiamo ad un pub più o meno vicino casa, io sono fedele alla mia birra e voi prendete altro, non capisco neanche cosa. Arriva James verso le due forse, io penso che sono in piedi a camminare dalle nove più o meno e sono distrutta, dormo in piedi, ma i due giovanotti hanno iniziato anche prima di me. Eppure ancora parlano… Questione di età. Sicuro.
Ed è domenica mattina. Quella che doveva essere tutta per noi, quella del pallone nel parco con papà, quella dei tempi supplementari, per avere una chance in più.
Solo lei poteva riuscire a far uscire Felice in scarpe da calcio sotto un pantaloncino corto con tanto di calzamaglia! Abbigliamento che lo ha anche accompagnato mentre lei sceglieva il tailleur da portar via, mentre si faceva un po’ di spesa e mentre si comprava il pallone of course!
E le lancette girano…
Ma al parco ci arriviamo. È quello “piccolo”, vicino casa, con all’interno un campo di calcio con tanto di pista attrezzata per atletica, sette campi da tennis liberi e due per bambini, una pista per lo snowboard e spazio… Tanto. Per chi va in bici, per chi passeggia, per chi corre, per ragazzi che giocano a football americano con tanto di quel fango addosso che di più forse non ne ho mai visto.
E un’area diventa la vostra. Io vi guardo, vi faccio un video, vi vedo correre dietro un pallone come avete fatto tante volte. Forse all’inizio ti manca un po’ il tocco, si vede che non giochi più tanto. Ma ora puoi rifarti e non vuoi cedere a quel nemico che continua a girare: tic toc tic toc. Sono le due non c’è più tempo. Torniamo a casa e ovviamente dobbiamo correre per strada. Io non ho molto fiato, tu invece sì e ne approfitti per raccontarmi cose. Piccoli dettagli di un passato che non conosco, di quelli che ti sei costruita da sola, senza di noi, senza di me. Mi dici di come appena arrivata avevi sperato di poter vivere vicino ad un posto così dove ci sono pure i giochi per bambini. “Tante volte quando stavo sola i primi tempi venivo sull’altalena”. Mi sale un nodo alla gola pensando a te così, ma non è tempo di emozioni. Si scava un altro buco e si ammassa dentro ancora un po’ di roba.
A casa arriva la telefonata che ti anticipa l’arrivo in ufficio dalle quattro alle tre. Resto impietrita, non abbiano fatto le valigie, non siamo vestiti, voi non siete lavati… Ma un trucco da qualche parte c’è se tu poi riesci ad uscire di casa in tempo per il tuo pullman e noi decidiamo di seguirti nel giro di mezz’ora per chiudere “casa” e sistemare le nostre ultime cose. E cercare di sistemare anche le tue di cose.
Siamo sempre così elettrici ormai, che alla fermata ci arriviamo con quattro minuti di anticipo, come segnalato da aggiornatissimo display che ovviamente cadenza la giornata minuto per minuto. Anche da te arriviamo puntuali, forse in anticipo visto che non ci sei. Quando arrivi sei con Bianca e Lucy, ognuna con la sua valigia pronte per andare, via di corsa, da un’altra parte. Non c’è tempo per un saluto vero e proprio. Mi abbracci velocemente per lasciarmi andar via proprio come avevi fatto quando mi avevi accolta, e qualche secondo in più lo dedichi a lui. Il papà che ha bevuto gocce della tua presenza, accontentandosi di bagnarsi le labbra, mentre avrebbe avuto voglia e bisogno di dissetarsi da un’arsura che durava da quasi un anno. Ma il tempo non perdona. E sei già via e noi siamo diretti nella direzione opposta alla tua, con qualche indicazione inviata sul cellulare per capire come non perderci in questo dedalo di megalopoli e arrivare a casa di Zaida e Roby.
Ecco qui. La nostra vacanza con te è finita. Ma neanche a questo possiamo pensare. La metro è un labirinto di linee che non ci permettono distrazioni. Da Angel a Euston poi Victoria fino a Oxford Circus e poi Bakerloo linea Northbound fino al capolinea Harrow & Wealdstone.
Tutto di corsa fino a quando ci sediamo per l’ultimo lungo tratto di metropolitana che ci porta lontani dal caos, in mezzo a campagne, a case più basse, fino a una casa “normale”. La serata è bellissima, ricordi si accavallano e risate e novità su queste vite che conduciamo e che non ci eravamo raccontati per anni. Ma la sveglia arriverà presto per cui a letto come bravi bambini, tutti e quattro.
La sveglia suona solo un attimo dopo che ho già aperto gli occhi, un caffè fatto in casa ci ricorda che siamo vicini al ritorno e poi in macchina, nel gelo di una notte inglese. L’ultima, che abbiamo vissuto al contrario, dormendo e svegliandoci prima. Per avere anche altre visuali. Un’ora di viaggio fino a Gatwick, ma è volata via anche questa. Sarà stato per la buona compagnia.
L’aeroporto ci accoglie già brulicante di persone, sono le 5,30 del mattino e la sosta consente giusto il tempo di tirare fuori le valigie. Un efficiente addetto con giubbetto catarifrangente ci fa subito capire che non ci concederà di più. Baci e abbracci, la promessa, sincera, di volersi rivedere presto e via. Bagagli in mano ci avventuriamo. Tutta la procedura di imbarco che chiude alle 6,35, ci vede come ultimi, tra file, passaggio borse, perquisizioni e chilometri di piani da percorrere per arrivare sotto quell’aereo che ci riporterà a casa.
Qui è l’alba. Un cielo striato di rosso e azzurro ci saluta con tono quasi burlesco, o forse vuole solo lasciarsi ricordare con dolcezza. È un regalo che ci sta facendo, un regalo che ho creduto ci dovesse per come ci aveva costretti a correre, a vivere in un fiato quattro giorni che avremmo invece voluto al rallentatore. Ma non sapevo ancora tutto in quel momento. Non lo sapevo che cosa veramente mi aveva mostrato quella Londra frettolosa, affollata, colorata e grigia, antica e modernissima, chiusa nelle sue tradizioni e aperta al mondo intero: non lo sapevo.
A casa noi riprendiamo le nostre abitudini in fretta. Valigie da disfare, riprendere a cucinare a programmare cose non più fatte negli ultimi giorni. E una sensazione mi accompagna ovunque. Qualcosa che mi sono portata dietro senza dichiararla alla dogana, ma inconsapevolmente. Perché non lo sapevo ancora cosa fosse.
Poi un martello in mano, una pedana da distruggere e tutto sembra venire a galla.
Un anno mi si ripresenta davanti. Quella storia che avevo contribuito a far nascere, ma che non avevo vissuto in prima persona, mi è apparsa con contorni diversi, nuovi. E forse sconvolgenti.
Quello che non mi spiegavo, le assenze lunghe ora lo so da cosa sono determinate. Quello che forse adesso mi è più chiaro è perché hai potuto scegliere questa vita. Le pause fanno male, come i ricordi.
Io me ne sono portati dietro pochi, pochissimi, ma ora li ho. E mi permettono di guardarti in un luogo reale, con una vita vera, non quella che avevo solo immaginato. Tu invece da casa sei partita con una vita di ricordi. Tu sai cosa facciamo tutti i giorni, conosci ogni dettaglio della nostra casa, le nostre abitudini e avere tempo per guardare indietro non deve essere facile.
E allora è meglio correre, meglio non pensare, meglio lasciarsi incantare dal fascino di questa city immensa che sembra guardare sonnacchiosa il brulicare furioso di gente sulle sue strade, i colori appariscenti e non dei suoi stessi sudditi, il tempo che cambia da una subway all’altra, tentando di confonderti ancora di più.
Londra si offre, io ho raccolto e ho portato via. Mi sembrava fosse stata cattiva con la sua fretta, il suo rubarmi tempo e spazio, ma in realtà mi stava preparando il suo di racconto.
Mi stava spiegando, più di quanto abbia potuto fare tu, come è stata la tua vita in questi ultimi anni.
Mi stava dicendo quanto sei stata brava a sbattere contro questo mondo che ti travolge come un’onda gigantesca e ti porta giù, in fondo. Ma se vuoi, puoi risalirla quell’onda e imparare a cavalcarla, dominandola e non esserne vittima.
Mi stava dicendo che ti aveva presa come una figlia in casa e ti ha dato lezioni di vita, lezioni che stai seguendo a duro prezzo, che non sono finite, ma che hai dimostrato di voler imparare.
Mi stava dicendo, con voce molto sottile, che sei una guerriera. Con armi ancora da affilare, ma con tutto il coraggio dell’eroe nella battaglia. E con il cuore grande, tenero e buono come di cioccolato.
Mi stava confessando che per farti andare così avanti, deve toglierti tutto il tempo in più, perché se ti fermassi, saresti persa.
Persa come lo sono io adesso, senza la protezione di una città come Londra che difende te e non me. Io qui ne ho di tempo per pensarti, ho negli occhi la tua vita, ho la certezza di quanto una mamma vorrebbe sempre essere vicina ad un figlio per tenergli la mano e la stessa certezza mi dice che sono troppo lontana da te per farlo.
Ma anche a me Londra ha lasciato un regalo: puoi essere in ogni angolo di mondo, puoi camminare o correre, puoi ridere o piangere, ma quell’amore che nasce tra cuori come i nostri, non si perderà mai.
- “Omocausto” di Antonello De Rosa: un’emozione da non perdere
- Jennifer, la donna sola ma solidale.
Cara Paola leggendo le tue riflessioni sul viaggio a Londra, mi sono commossa perché ti sembrerà strano, ma ho rivissuto le stesse gioie e gli stessi momenti di tristezza, ho ripensato a quella breve ma sicuramente indimenticabile “pausa” londinese che….mi ha insegnato tanto…di mia figlia.Ti voglio bene. Anna
Mi avevi detto “Il mio cuore è rimasto a Londra”: adesso ce ne sono due in giro per le “Street” <3 <3 🙂
Questa nota mi è arrivata da un “amico” , Antonio Donadio, conosciuto sempre grazie allo scrivere. La sistemo qui perché appartiene a questo racconto, per chi avrà la pazienza di continuare a leggere.
Nota di Lettura
Londra di Paola LaValle
(e per Paola)
L’occasione di un incontro londinese dettato da affetti e legami familiari diventa fonte di narrazione di una Londra vissuta e riletta fantasticamente. E’ la Londra degli occhi, della mente, del cuore di chi scrive. Se così non fosse sarebbe soltanto un mero resoconto di ore londinesi o alla meglio un pezzo cronachistico. Dopo poche righe sarebbe inutile proseguire e invece si va avanti, tutto d’un fiato, fine alla fine. Ma non basta ancora: ora, io lettore, so tutto, assieme all’autrice, della città di Londra; e ora che so tutto sento che quel tutto non m’interessa per niente: né Carnaby Street, né Green Parck, né Buckingham Palace, … Non è certamente questa la forza che voglio, che si deve, ritrovare in chi scrive; per questo basterebbe sfogliare un depliant di viaggi o googlare in rete. E allora dove è la forza, la cifra d’un racconto? Bisogna scovarla, cosa facile se non ti si offre. Ed ecco: preso dalle cose narrate, inaspettatamente, il lettore è travolto dal respiro ossessionante, senza soluzione di continuità, dello scrivere. Ci siamo. Ecco che la scelta formale narrativa diventa forza del dire, del raccontare. L’autrice dice che in quei giorni è travolta dal ritmo forsennato della città di Londra, quasi senza respiro vitale; ed ecco che il lettore viene catapultato fra queste pagine. L’autrice ti prende e ti porta con sé in questo vortice: forza narrativa viva. Il ritmo è incalzante, pause anomale e accelerazioni incontrollate, mancata punteggiatura- esemplificativa: “Avevamo voglia di sapere di parlare di raccontarti “. Ecco la forza del narrare: il mancato uso delle virgole detta l’incalzante ritmo alla frase, forza il respiro che si fa continuo, senza pausa alcuna; piccola apnea per il lettore: siamo in corsa assieme all’autrice per le strade di Londra! Lo scrivere è forza viva, non espediente per rivestire i pensieri. E lo scrittore sa che deve dare vita alla sua scrittura.
Mi fermo. Sono le 7 del mattino del 12 aprile. Rigiro tra le mani il tuo testo inviatomi via mail. Ne ho fatto una copia di stampa: amo il cartaceo, il contatto delle mani coi fogli. Come per lo scrivere. Mi piace questo tuo racconto. Ma ora ho bisogno di una pausa. Non amo la frenesia del vivere, amo, metafora calcistica, il piacere della moviola. Mi ritorna alla mente ciò che scrissi molti anni fa, prima dei vent’anni. La vita va vissuta alla moviola: il tempo è fatto di attimi. Solo gli attimi sono vita: i minuti sono l’accelerazione verso le ore; il giorno con le sue ore la rappresentazione del già vissuto; gli anni la storia fredda e impietosa dell’irripetibile. La somma dispersa degli attimi vitali. Con questo tuo racconto, questa mattina, mi regali il piacere delle pause: faccio colazione più lentamente, seguo le notizie dal mondo con meno frenesia, più tempo nel bagno e nel vestirmi, più lentamente rileggo queste note scritte per te. Tutto mi appare superficiale, inadatto a dire qualcosa veramente sul tuo testo: come spiegarti che questo inno alla Londra vitale, frenetica è inno alla vita vissuta lentamente, assaporata attimo dopo attimo? E allora, grazie per questo tuo dono. Semmai andrò a Londra non dimenticherò questa tua lezione.
Antonio Donadio