Una vita a foglietti

“Omocausto” di Antonello De Rosa: un’emozione da non perdere

Omocausto 1Da Vivimedia

Andare a teatro da Antonello De Rosa, dopo anni che lo faccio con una certa regolarità, dovrebbe farmi arrivare preparata. Ma non è così. Anzi. Sono proprio tutte le volte che ho visto i suoi lavori, che ho seguito i suoi ragazzi, che mi fanno sempre più sottolineare la fortuna che abbiamo, tutti, nel poter assistere alle sue serate.

L’occasione è la Giornata della Memoria, quella dedicata al ricordo di un olocausto per il quale non sembrava ci potessero essere più aggettivi, ma che invece di insegnarci a migliorare, sembra ci abbia aperto gli occhi verso atrocità che vediamo in diretta, ma che apparentemente quasi non ci colpiscono più, presi dalla fretta delle nostre vite frenetiche, zeppe di “cose” ma spesso povere di “contenuti”.

E arriva lui, lo spettacolo è l’”Omocausto”, perché oltre agli ebrei, in quei lager, hanno sofferto sevizie e torture anche omosessuali, zingari, negri: razze inferiori, uomini marci, che non meritavano rispetto.

Il mio impatto con lo spettacolo inizia appena entro in sala. Incontro alcuni dei ragazzi che saranno tra poco in scena: volti pallidissimi, cappotti troppo grandi, piedi senza scarpe.

Li guardo e vado a sedermi nell’attesa di sapere cosa e come sarà questo spettacolo e nel frattempo ci fa compagnia un violino: le sue note raccontano la storia vissuta da molti, raccontata da troppi, ma forse realmente capita da pochi. Sono note struggenti che ho cercato di evitare ma sono riuscite ad entrare lo stesso da piccole fessure e si sono impossessate di ricordi guardati studiati ascoltati: facevano già male così e non avrei voluto sentire altro dolore, ma questo è il giorno della Memoria e dimenticare non si può!

Omocausto 6Nel buio più totale si accende un faro forte, indagatore, che acceca, mi fa arretrare sulla sedia, ma non posso scappare, così come non potevano scappare “loro”.

I primi ad entrare in scena sono cinque ragazzi, Max, Pasquale, Alessandro, Antonio, Francesco. Leggono pezzi di pensieri che già pesano come macigni “Non dimenticare cosa?” “Plasma le menti” “Il fumo delle loro vite, il peso delle nostre colpe”.

Latrati di cani e il rumore del treno che arriva in sottofondo fa salire anche noi, non c’è scampo per nessuno stasera.

Tre bambine sole si sistemano ai lati del palco. Sono voci fuori campo, sono parte di un racconto, sono interlocutori di un dialogo tra anime spezzate e altre che vogliono sperare.

Dalle quinte spuntano esseri che sembrano fantasmi, abiti troppo grandi o corpi che sono diventati troppo piccoli; occhi che raccontano paura, timore e il nulla oltre l’attimo che stanno vivendo. Sono tanti, sono persone, sono anime, ma sono nessuno, sono solo numeri. Si allineano dietro un ordine, hanno un vicino ma non sanno chi è!

Iniziano i racconti, le storie di ognuno, perché ognuno ha sempre una storia che lo precede e che spera lo porti nel futuro, ma non sappiamo se sono diverse o se diventano poi tutte uguali. Le voci dei bambini ispirano fantasia, ma in posti come quelli le fantasie possono facilmente diventare bugie: bugie che a volte servono per sopravvivere.

La massa scompare, ritornano i cinque uomini. Anche loro sono dei prigionieri, zingari, ebrei, prigionieri politici, omosessuali, tranne uno che ha un cappotto scintillante, quello di chi comanda e che fa spuntare perfino delle ali alle sue spalle: è l’illusione di un Angelo divino? No. È colui che ascolta le colpe degli altri, che li giudica, che li sbeffeggia, che li rende protagonisti di un gioco crudele: il gioco dei piccoli operai. Che senso ha spostare la neve da un lato all’altro della strada? Nessuno, solo il piacere di macchiare quel candore con il rosso del sangue della sofferenza e delle piaghe. È il gioco dei piccoli ebrei.

Una nenia celeste interrompe le accuse verso Dio, le allusioni al Suo abbandono: una nenia troppo presto sostituita da una sirena!

Tornano le donne, tra cui Fortuna, quella bella e con la bella voce. E se hai qualcosa di bello lo devi mettere a disposizione. La brutalità, la violenza e la pretesa, dopo tutto questo, di farla cantare: Lilì Marlene. La lingua è dura, non sembra avere musicalità, ma lei non credo voglia metterne di suo. Il canto è espressione di sentimenti, ma cosa può mai raccontare un campo di concentramento? Solo di abusi. È il vecchio dramma delle donne, prede di uomini che ne decidono il destino.

Arriva un gruppo nuovo. Sono tutti qui, insieme sul palco, ma sono pensieri lontani che cercano di raggiungersi. Teresa è una madre che scrive al proprio figlio, Pasquale un figlio che non scriverà mai a sua madre.

Lei che vorrebbe avere un solo piccolo segno della vita che continua, e lui che non troverà mai le parole giuste per raccontare le atrocità che subisce. Lui è Fred, un omosessuale, un frocio, un finocchio.

Lei che chiede “Potresti raccontarmi bugie”

Lui che risponde “Non ti scriverò”

E Lilì Marlene ancora canta…

Le donne tornano e con loro anche le voci di quelle bambine che con innocenza chiedono “Cosa sono i colori mamma?” Perché i grandi, lì, conoscono solo bianco nero e grigio: col tempo e l’abbrutimento, hanno dimenticato il senso dell’arcobaleno. Ma ai bambini è ancora concesso di poter abbinare colori a sentimenti, perché per loro la vita è da venire e la vita è fatta di colori.

Si possono immaginare uomini che appaiono con musica da cabaret in sottofondo, tube sulla testa e gilet con lustrini? Certo, punire un innocente è un sano momento di divertimento. Fanno rabbrividire le risate che riempiono le loro bocche mentre raccontano l’umiliazione e il dolore che impartiscono a “uno qualunque”, picchiandolo sulla testa su cui hanno capovolto un secchio!

Li conosco tutti quei ragazzi eppure vi garantisco che li ho odiati in quel momento!

Vanno via lasciandomi con la bocca asciutta, ma chi arriva non mi aiuterà a migliorare: è Cristina, la donna che avevamo già conosciuto come Eva, la prima ad entrare in un campo di concentramento. Eva e sua figlia Luce. Ma con loro torna pure quel cappotto lucido, il capò, colui che può decidere di concedere vita o morte, dolore o speranza. Ha ancora le ali su quel cappotto.

I dialoghi sono disperati, Eva ha sul volto, nel corpo, nelle parole la disperazione di tutte le mamme del mondo a cui tolgono un figlio. Con violenza, con cattiveria, senza mostrare un velo di umanità.

“L’hanno portata altrove!”

“E dove sta altrove?”

La mente che non sa più ragionare percossa e percorsa solo da quel dolore che ti strappa il cuore dal petto.

E non ci sarà il lieto fine: una mitragliatrice chiuderà quest’altra parentesi e ucciderà altre vite.

La sedia su cui sono seduta è diventata larga. Mi sembra di cadere e devo quasi mantenermi. Ma non è finita…

I campi sono stati anche luogo di “ricerca”, perché per ottenere la razza pura bisognava creare l’uomo perfetto. Cosa potevano mai significare quei corpi martoriati, torturati che venivano sacrificati in nome di una causa così elevata? In fondo, non dimentichiamolo, erano solo corpi, non uomini!

Ma accade qualcosa. L’uomo dal cappotto pieno di lustrini, quello duro, violento, senza cuore, all’improvviso si spoglia del suo abito, diventa uno qualunque. Si siede con le gambe penzoloni davanti a noi e ci racconta il suo di strazio. Lui ama Fred! Ma quella sarà la punizione più grande: dover guardare i carnefici torturare l’uomo che ama. Senza poter far nulla, senza poterli fermare, senza poterlo salvare. E senza poter salvare se stesso.

Questa persona è Alessandro nella realtà, ma lo devo scrivere per ricordarmelo perché in quel momento lui era l’uomo disperato che piangeva, davvero, per quell’altro essere tenuto nudo nella neve, legato con i polsi ad una porta a gambe aperte, mentre gli passavano i testicoli da una ciotola calda ad una fredda, “tanto non gli servono”, o mentre lo trapassavano con un manico di scopa, continuando a prenderlo a calci quando si accorsero che non era ancora morto!

Ecco. L’uomo senza più cappotto aveva toccato con le mani del cuore il SUO dolore e lo aveva conosciuto e capito. E lo aveva fatto sentire anche a noi. Un’altra volta, in maniera cruda, forte, con la rabbia di chi si chiude dentro un personaggio che diventa gabbia e prigione per sempre.

Non ti ho applaudito in quel momento Alessandro, lo confesso. Ma non perché non lo meritassi, anzi, è stata una delle cose più belle che hai fatto tra le tante bellissime che mi hai regalato: solo perché mi hai fermato il cuore.

Ma lo spettacolo continua e pure la vita e pure le tragedie.

Tornano le donne, una è incinta, ma sta tentando di nasconderlo. Può essere che tra quelle anime spente, tra quelle vite che non vedono il domani, possa non esserci un filo di solidarietà? Si. Perché il dolore può generare comprensione, ma può anche far nascere invidia e rancore.

Passano altri detenuti, portano notizie. Moderni Re magi che non hanno doni da dispensare, ma solo fango e miseria.

Annalaura spera di poter nascondere il suo bambino “perché i Russi stanno arrivando”, ma Mary non vuole. Lei ha perso figlia e nipote e non concepisce che un’altra donna possa avere l’opportunità che a lei è stata tolta. La morte di un altro bambino come segno di giustizia divina per lei. La denuncia all’uomo che ha rimesso il cappotto. “Di quanto sei incinta?” “Sette mesi.”

E sono forse proprio sette i calci che le rifila nella pancia! Nessuno merita pietà.

Cala il silenzio profondo, solo una voce dolce canta canzoni che non riescono a rianimare il cuore.

Improvvisamente la musica diventa forte, quasi un frastuono, un can can vorticoso che serve a coprire grida di dolore mentre nasce quel bambino calpestato e scacciato dal grembo della madre.

Le bambine che erano rimaste sedute ai lati del palco tutto il tempo si alzano e raggiungono il centro del palco.

Cosa sarebbe il mondo senza fantasia?

Le domande dei bambini possono avere risposte inventate. A loro tutto è concesso: sognare, immaginare un mondo di colori senza bianco grigio e nero.

Quello che è stato questo spettacolo lo rivedo negli occhi di queste tre splendide bambine, Livia, Ylenia e Alessia. Quando sono arrivate sul palco hanno recitato e lo hanno fatto molto bene. Già restare in scena in mezzo a tanto dolore fa diventare grandi. Ma il modo in cui ci hanno salutati, lo sguardo che avevano mentre ci lasciavano le loro ultime parole, diventa il messaggio più vero e bello e importante di tutta la serata: loro hanno raccontato ciò che ogni bambino vuole. Non importa quanto male sanno costruire i grandi, non importa quanto dolore gratuito sanno infliggersi l’uno con l’altro, no non importa: loro hanno un sogno, hanno un domani da conoscere, hanno una vita ancora tutta da vivere.

Pasquale Petrosino fa i ringraziamenti della serata ai ragazzi di Scena Teatro e il loro maestro Antonello De Rosa, invitandolo a parlare. Non è la cosa che preferisce, ma d’altra parte racconta così tanto di se nei lavori che mette in scena che tante parole potrebbero essere superflue.

Ma è giusto ricordare che la serata aveva scopi benefici, una raccolta per le zone terremotate del centro Italia (1200 € di incasso totalmente devoluti) e un pensiero: “Dovrebbe essere il 27 di gennaio tutto l’anno.”

Perché l’uomo non impara dal proprio passato, o forse impara solo a convivere con i propri orrori. Perché Auschwitz è stato chiuso, ma hanno creato Aleppo e Gaza e la Siria e tutti i posti dove innocenti pagano la follia di pochi.

Questi sono stati i protagonisti di uno stupendo lavoro che non dimenticheremo facilmente, cominciando da Massimiliano Costabile, anche autore del primo monologo, Alessandro Tedesco, Annalaura Mauriello, Roberta Cavallaro, Alessandra Pettinati, Roberta Buonfrisco, Teresa Massaro, Mirella Milite, Angela Avallone, Anna Renzi, Rosalba Ronca, Mary Mazziotti, Fortuna Imparato, Francesco Siani, Antonio Iannone, Cristina Mazzaccaro, Pasquale Petrosino, Giusy Lamberti, Rossella De Martino, Livia Improta, Ylenia Anna Gentile, Alessia Coppola.

Un saluto a parte a Laura Saviello che “nello svolgimento delle sue funzioni”, per la forte carica realistica della rappresentazione, ha subito danni alle dita della mano.

Grazie a tutti e grazie ad Antonello: Antonello De Rosa è una persona speciale. È uno di quelli che ti sa mettere le mani sul cuore e anche quando te lo riduce in piccoli pezzettini, sa poi regalarti il collante per rimetterlo insieme. Questo fa con chi lo guarda e con chi lavora con lui. Se così non fosse stato, non avrebbe avuto questo risultato con ragazzi che non sono professionisti, che hanno preparato tutto in pochissimi giorni, ma che hanno saputo capire il profondo messaggio che stavano raccontando.

Lui li ha resi anonimi dentro quei cappotti informi, dietro quelle violenze gratuite, ma ha saputo far conservare, in ognuno di loro, la dignità di essere persone.

Perché nella giornata della Memoria, non credo che dovremmo preoccuparci di ricordare i numeri che fanno il censimento dei morti, ma essere certi che stiamo parlando di esseri viventi. Se ricorderemo il rispetto che ogni essere umano merita, allora potremo dire che abbiamo imparato qualcosa.

E al Centro Sociale di Pastena, in un sabato sera per la Memoria, ci è stato regalato un vero pezzo di storia.

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