Favole ed incubi “Indovinare il presente” – Cristian Izzo e Luigi Credendino.
L’ho iniziato tante volte questo pezzo, ma in realtà non mi sedevo mai per scriverlo davvero.
L’ho iniziato tante volte perché da sabato sera vi ho pensato tante volte e sempre in maniera diversa.
In realtà pensavo e non scrivevo perché ho temuto di non avere tutti i pensieri giusti per raccontarvi.
Ma poi sono ritornate le vecchie sensazioni, quelle che da sempre mi spingono non a fare una recensione, ma a creare un racconto di te, di voi, che passa attraverso me.
Torrenti che si intrecciano e che raccolgono le proprie acque per farle diventare qualcosa di più grande, in cerca di altri corsi d’acqua per arrivare al mare più in fretta, più consapevoli.
Toglimi le certezze, lasciami i dubbi.
Un piccolissimo portone in una Castellammare piena di vacanze, di turisti, di yacht e velieri maestosi e meravigliosi, e un sole che prima ti toglie il fiato e poi si accomoda verso l’orizzonte col suo colore infuocato, che sembra possa spegnersi nell’immensità del mare…
Un piccolo portone allora, a lasciare dietro le “grandi cose” e riportarmi dentro quelli che sono spazi più piccoli, ma da dove è difficile far scappare quelle più “piccole” di cose, quelle piccole come semi, a cui puoi decidere di dare acqua per farli diventare giganti.
Secret Garden Apartment, ospiti di Patrizia Iozzino e Peppe Ottone; un pergolato, sedie e intorno vite raccontate da teli stesi ad asciugare e luci dentro stanze di chi vive le proprie vacanze.
Noi qui invece aspettiamo; aspettiamo di riprenderci dal caldo, ma soprattutto di vedere soddisfatta la curiosità che sempre precede gli spettacoli di Cristian. Unico indizio un manifesto grigio, con un grande cerchio rosso al centro e una parola “AMORE”, che regala buone sensazioni.
Quando si accendono le luci dei due leggii, mi accomodo meglio nella mia sedia e, come una scatola vuota, aspetto di scoprire quali saranno i doni di cui mi riempirò.
Cristian e Luigi, semplicemente loro. Niente scenografia, l’atmosfera la creano da soli. Un passaggio davanti a quel manifesto, un ideale dialogo con un professore in lontananza e poi si va.
Prime parole cantate a cappella da Cristian e poi Luigi parte col suo racconto.
Mi colpisce il sottofondo di Cristian; la sua nenia mi sembra un tentativo di smorzare l’attenzione su quello che Luigi comincia a narrare. È una storia d’amore, è una palombella col suo amante, ma siamo all’inizio e ancora non ho la certezza di aver compreso in che gioco ci stanno accompagnando. E Cristian continua a masticare note e parole, e cerca attenzione, ma lo fa anche Luigi con la sua storia in napoletano che diventa drammatica… la corsa verso un amore più grande, la rincorsa di chi ti vuole tenere ancora con sé, la difficoltà di attraversare luoghi pieni di pericoli, la tragedia che incombe su quelle vite frenetiche e brevi.
Quando tutto è compiuto, Cristian smette di cantare, gli spettano parole.
La cronaca di un’altra tragedia. È sempre da lì che si parte.
Morte apparente, fiducia nell’attesa, suggerimenti di eutanasia, percorsi dettati dal cuore, dall’amore profondo tra padre e figlia e dalla determinazione di non abbandonare quella parola infinita: SPERANZA.
Ma mentre il tempo in certi luoghi sembra immobile e senza storia, nel mondo quello stesso Tempo diventa costruzione di possibilità: se i capi della terra si accorgono di non poter avere predominio l’uno sull’altro, allora che ciascuno usi i propri mezzi per annientare l’altro.
E in questa tragedia mondiale accade il miracolo del privato. La ragazza immobile nel suo sonno da cinque lunghissimi anni, si risveglia lì, in quel momento che sarà nuovo o sarà l’ultimo. Fortuna? Sfortuna? Quale la situazione esatta?
Cosa cambierà la realtà? Il racconto. Le parole che scegli di usare per comunicare una notizia. Se lo scoppio di un’arma nucleare lo fai diventare fuoco dedicato al tuo personale miracolo. Tu, singolo individuo, che diventi protagonista in una storia che, apparentemente, non aveva mai pensato di far accadere miracoli.
Aurora boreale. Aurora nucleare.
Lasciamo sfogare le nostre riflessioni dentro applausi che non hanno tempo.
Luigi e Cristian non ce ne concedono.
Una storia di “scarrafoni” ci aspetta.
Sembrano ripugnanti anche se non li vediamo, ma poi succede che a quegli animali così mal visti, descritti sempre in maniera così ignobile, si dia un nome. E diventano esseri viventi. In quella condizione, può avvenire la lettura di entrambi i punti di vista. L’uomo spaventato che lo guarda con ribrezzo e lo scarafaggio altrettanto spaventato, altrettanto sorpreso dall’immagine che gli si para davanti. Ognuno desideroso di continuare la propria attività, entrambi colpevoli di un incontro che pretende un vincitore.
Il tutto condito di quell’AMORE, sorprendente, che ancora è lì, sul manifesto, ma che a breve sarà sostituito da uno molto simile nella grafica, l’unica differenza sarà il termine al centro: MISERIA.
Toglimi le certezze, lasciami i dubbi.
Non ci sono animali brutti qui, ci sono uccelli. Uccelli ingabbiati, uccelli che non hanno bisogno di cercare nulla perché tutto è già disponibile. Uccelli che non cantano più perché non serve il richiamo per una compagna, gli viene già offerta. Non devono marcare un territorio perché il loro spazio è già assegnato, non hanno necessità di avere Memoria di ciò che sono stati. Vivi? felici?
Non ci sono risposte, solo pensieri e Luigi incalza.
Il sudore e lo sforzo sono diventati parte della scenografia, quella che sembrava mancare. Ci sono mani e passi che accompagnano le parole gettate verso di noi come raffiche di mitra e davvero sono proiettili che colpiscono ovunque.
Li riconosco quei colpi, sono quelli che nascondono le domande, quelli che ti chiedono di riflettere. Li senti mentre ti trafiggono ma hai imparato da tempo che sono ferite utili, necessarie, che ti permettono di sentire che hai ancora sangue nelle vene, che hai necessità di trovare lo Spazio dentro cui muoverti, di voler vivere il Tempo che hai avuto in dono.
Dopo gli uccelli le formiche, quelle laboriose ma invadenti, quelle che occupano terreni che decidi che non sono loro ma tuoi e che tu puoi decidere di “ripulire”.
Anche qui, quelle masse mobili che sembrano “macchie”, di colpo, battezzate con nomi comuni, divengono comunità, sorelle, fratelli, mamme, padri, figli. Un mondo che ha le sue necessità, ma su cui noi abbiamo deciso di prenderci un potere: quello dei più forti. Noi possiamo intrappolarli sotto mattonelle bianche che lasciano “pulito” tutto intorno, o essere così bravi da riconoscerle, raccoglierle su una bella pattumiera, e riportarle a “casa loro”.
Il libro dei racconti ha ancora pagine da leggere, e ci dedicano una storia di gabbiani a cui hanno inculcato il concetto di Paura. Paura di volare e solitudine. Ma se rinunci per troppo tempo alla tua reale natura, rischi di perderla. E da gabbiano puoi diventare topo, costretto a correre con le tue zampette inappropriate, a mostrare una visione sminuente rispetto a ciò che potevi essere e diventare oggetto di dominio.
Da dove veniamo noi quindi? Siamo figli di angeli che hanno smesso di volare dimenticando come si fa e soprattutto di pensare che lo possiamo fare?
Niente Tempo vi dicevo, ogni cosa va frettolosamente rinchiusa nella scatola che, previdente, mi sono portata.
Ultimo cambio in scena; non più un solo termine ma una frase: DELLE COSE PIÙ VICINE, DELLE COSE PIÙ LONTANE.
Toglimi le certezze, lasciami i dubbi.
Cose c’è di più vicino al nostro sedere? Una sedia. Quell’invenzione che poi si è evoluta in poltrone, divani, sdraio, e tutto quanto può darci comfort e ristoro. E con i nostri deretani a volte esagerati, abbiamo adattato a loro le sedie che sono ormai stanche di sopportarci e sostenerci; finiamo così, con “un cesso per trono”.
A voi personali considerazioni. Perché spesso, in mezzo a “fragorose risate” si perdono i dettagli, ancora una volta “le piccole cose”, che cambiano il senso di una seduta.
E in un libro di favole che si rispetti, poteva mancare la Morte? Da qualcosa di così vicino a noi come una sedia, potevamo rinunciare a quella, apparentemente, più lontana?
Vita, nuvole, andare: lasciarsi andare o incatenarsi all’immobilità della Paura per il timore della Morte?
Cos’è questa signora oscura che non riusciamo a comprendere?
Cristian crea il suo paradosso con lo scienziato, Luigi lo sostiene col frigorifero.
La scienza che trova la soluzione e rende l’uomo immortale. Mai più timore di perdere qualcuno, mai più paura di non portare a termine qualcosa…
Ma essere immortali ha qualche risvolto? Se non si morirà, in quanti potremo vivere? Forse dovremo rinunciare a riprodurci, forse arriveremo a conoscerci tutti, forse si esauriranno gli argomenti di conversazione, forse… forse ci resteranno solo Occhi per guardare quanto la Morte, che tanto ci spaventa, ha il suo senso, ha una sua necessità.
Il frigorifero, il suo contenuto, il suo desiderio di essere ancora più grande nonostante sappia quanto sia inutile. “Dolore” nel vedere tanto spreco ma non saper cambiare questo bisogno così speciale, così solo umano, di cui non riusciamo a liberarci.
Se addirittura quel Dio immenso avesse lottato a lungo per capirne l’importanza?
Forse il suo grande desiderio è stato poter provare Dolore. Un desiderio che ha provato a realizzare donandoci suo Figlio, mandandolo a morire per poter Egli stesso morire di dolore.
Noi siamo dentro questo tornado di parole e sensazioni mentre Luigi e Cristian si stanno congedando dal loro professore immaginario e soprattutto da noi.
Non so dire quanto sia durato tutto quanto, perché ancora adesso sembra che non sia finito.
Una serata che è stato un reading di poesie, una sorta di novelle in italiano e in vernacolo, queste tra le ultime parole di Cristian, come a volerci tranquillizzare su quanto ascoltato, come se il termine novella riportasse alla mente una fiaba, una di quelle che raccontiamo ai bambini e che deve aiutarli a dormire.
Ma queste non ti lasciano dormire per niente.
Queste sono parole che vanno a soffiare su carboni accesi da tempo e che chiedono di essere ravvivati perché non possono rischiare di spegnersi.
Sono i carboni della storia, della Memoria.
Ciascuno di noi ha la propria cenere, ha la sua Memoria. Possiamo identificarci nei gabbiani senza ali, nelle formiche scacciate, negli amori assoluti, nel dominio dei potenti, nella passività di vite appiattite, ognuna di queste scelte sarà giusta se per ciascuno segnerà una sua propria strada.
Quei torrenti che scorrevano solitari, devono avere il tempo di percorrere il loro spazio, devono creare il loro letto, accettando poi di incontrarsi con altre acque a cui riconoscere la stessa possibilità di racconto che loro stessi hanno fatto.
Trovarsi e diventare più grandi, ritornando a un concetto di Unicità.
In ogni cosa c’è molto altro.
Quel meraviglioso veliero che aveva colpito i miei occhi e pure la mia fantasia, mi ha mostrato quanto pure lui potesse avere tante possibilità di lettura: semplice oggetto di brama e desiderio, o specchio che riflette uno scenario magnifico per il quale non servono acquisti, ma solo “occhi” che vogliono vedere.
Toglimi le certezze, lasciami i dubbi.
Questa frase che ripeto dall’inizio mi è nata nella mente come se fosse un mantra, un monito; come se da ogni nuova storia che avevate preparato io potessi avere non risposte, sarebbero state le vostre, ma nuove domande.
Luigi, nel salutarci, ha usato una parola che mi ripeto spesso da qualche tempo: Coraggio. Interrogarsi è da coraggiosi.
Grazie allora a voi, al coraggio che avete avuto di ritornare a quel passato antico a cui possiamo attingere per il nostro presente.
Grazie perché volete essere narratori di lezioni che sembrano andate perdute, ma di cui si ha ancora bisogno.
Grazie perché avete scelto la magia del racconto usando le parole, facendole diventare, ancora una volta, vita infinita.
- Giovanna Rispoli – “Ho danzato pioggia e sole”
- Mal di Libia – Nancy Porsia