Il piccolo tromboniere morto
Giorno di dicembre, giorno di pioggia, quasi un giorno qualsiasi. Ma non lo è. Non può mai essere un giorno qualunque quello in cui muore un ragazzo di 19 anni.
Mi sembra strano stare qui a scrivere di lui perché non lo conoscevo. Era un mio vicino ma non lo ricordo. D’altra parte la sua vita “pubblica” è stata sempre molto limitata, qui intorno ci girava in sedia a rotelle anni fa, ultimamente neanche più quello!
Malato e non so di preciso di cosa, un volto che non ricordo e una voce che non mi ha mai parlato.
Eppure di lui mi sono arrivati pezzetti di vita, piccole frasi di un dolore, di una paura che mi sono rimaste attaccate addosso per tanto tempo e solo adesso, ora che non c’è più, sono ritornate a galla. E non mi va di perderle.
Da fuori certe vite ci sfiorano soltanto. La visita ai genitori mi permette di guardare un interno pure questo mai visto. Non ci siamo mai frequentati, i nostri mondi sono leggermente lontani, ma non ha nessuna importanza. Di fronte alla morte si fa sempre un passo avanti, si va oltre quelli che possono essere i quotidiani punti di vista. Ma la mia ricerca di vita dentro stanze che parlavano di morte non si ferma, non riesco a tenerla a bada. Pergamene di trombonieri che gli hanno conferito l’appartenenza onoraria al gruppo, foto della disfida, letto ricoperto di sciarpe e colori del Napoli calcio.
Chi era questo bambino ragazzo? Cosa provano oggi i suoi genitori? Non lo so e non mi permetto di parlarne. Chi potrebbe farlo? Chi potrebbe capire se c’è un velo di sollievo per quella vita che ha smesso di soffrire pene lancinanti, o un baratro di dolore per una vita che è passata in mezzo a tanti senza fermarsi a lungo? Silenzio. Non lo so, non lo sappiamo.
Eppure dalle frasi che uscivano fuori da quelle mura, dai racconti di quella quotidianità così pesante, difficile, alcune parole sono rimaste scolpite. E oggi che ho finito di leggere una relazione dove si parla del bianco e del nero, del buio e della luce, mi interrogo su tutto questo.
Mi hanno raccontato della paura di questo ragazzo di morire! Del suo chiedere ai genitori di non lasciarlo andare, di non lasciarlo solo!
Cosa spinge una persona che ha piena consapevolezza del suo vivere nel dolore perenne, della sua impossibilità di lasciare un letto, di sentire il calore del sole o il brivido della pioggia sul volto, a pensare che quello che ha è comunque meglio di quello che non sa? Che concetto ha sviluppato della morte? Quale conforto ha potuto immaginare in questo tempo di vita che gli è stato concesso?
Il buio come luogo di paura, mentre potrebbe essere stimolo di scoperta; il bianco come purezza che potrebbe paralizzare e indurre al non fare.
Quale interpretazione scegliamo? Quale riteniamo più adatta al nostro pensiero? Perché noi, su questo, un pensiero dobbiamo averlo. Noi che viviamo abbiamo il dovere di pensare alla morte, e ne dobbiamo parlare. Fa parte del nostro percorso, per qualcuno ne sarà la fine, per altri il necessario passaggio. In ogni caso non è evitabile.
Questa morte, il cammino di questo ragazzo è un ulteriore momento di riflessione. Quello che la morte dovrebbe sempre concedere. Non andare di fretta, non cercare subito di riprendere la vita normale. Quando qualcuno di caro ci lascia, la vita riprenderà, ma non sarà mai più la stessa. Cambiamento, maturazione, adattamento.
Mi piace allora vedere un segnale in quel corteo che si muove in lontananza; tutti in parata, con trombe e tamburi e lo sparo di un pistone. Il saluto a quel membro onorario che non ha mai infilato un costume, non ha mai sparato, non ha mai suonato, si muove lento, sotto un cielo pesante di pioggia ma che aspetta per riversare le sue lacrime sulla strada fangosa. E quella bara portata a spalla, in una “sfilata” particolare che gli ha lasciato il posto centrale, tra le trombe e i pistonieri, assume un significato quasi gioioso. Un momento di festa in un giorno triste.
Ma ora che sarà da qualche altra parte, il piccolo tromboniere morto, sarà davvero ancora morto?
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