Una vita a foglietti

“Io e te” Antonello De Rosa e Filomena De Gennaro ci regalano indimenticabili serate di teatro.

io e te–          Un grande testo prevede un grande lavoro, ma soprattutto un grande Maestro.

Si è chiusa più o meno con questa frase la serata nella chiesa di Santa Apollonia che ospita la Rassegna “Aspettando i Barbuti”. A pronunciarla Filomena Di Gennaro, partner in scena di Antonello De Rosa, attore e regista dello spettacolo “Io e te” allestito per l’occasione.

Mi è sembrato il modo migliore per introdurvi in una serata che è stata “pazzesca”, o forse ha solo, ancora una volta, riassunto tutta la grandezza di quest’uomo che non fa teatro: lui vive per il teatro e dentro il teatro.

Vedere gli spettacoli che allestisce con i suoi allievi è cosa grande, ma quando in scena c’è lui, allora il livello sale notevolmente. E non me ne vorranno i ragazzi.

Lui ci tiene in pugno. In quegli ambienti, che siano sale di un circolo, palchi di un teatro o chiese sconsacrate, è lui che comanda.

Aspettiamo fuori, in una caldissima e umida sera di un’estate pesante, ma il sacrificio vale. Quando decide che possiamo entrare, lui è in scena. Lo spettacolo è già iniziato. Ritrovo il pavimento con il suo contrasto di bianco e di nero, ma una coperta lo copre nella parte centrale.

Non ho tutto il tempo che vorrei per assorbire i particolari, i dettagli che sempre so che fanno la differenza con lui. Vedo il suo abbigliamento: un pantalone chiaro, tirato su da una gamba che scopre un calzettone bianco, a rete, un pezzo d’altri tempi. L’altra gamba ha un risvolto ingiustificato, ma anche la camicia non ha i bottoni sistemati nell’ordine giusto. Chi è quest’uomo che gira intorno alla coperta distesa e la guarda come se cercasse risposte alle tante domande che gli affollano la mente? Anche perché non ha neanche le scarpe infilate per bene e un altro paio lo porta nelle tasche dei pantaloni!!!

Nella parte interna della chiesa, diremo sull’altare, c’è un’altra figura. Vestita di nero sul marmo bianco. Tutto in perfetto estremo contrasto. Il bianco e il nero, il bene e il male, la normalità e la follia.

Mentre cerco di assimilare tutto quanto, lui già ci parla. Arriva il nome di Ciro, quel giovane bambino che è suo figlio e che ha appena seppellito. Undici anni ed è già volato via.

La storia che Antonello ha tratto da Giovanni Episcopo di D’Annunzio, non l’ha solo letta. Lui se ne è impossessato o lei si è incarnata in lui, facendola rivivere con un omaggio alla Serao e alla sua napoletanità.

Episcopus è un uomo mite, forse mediocre che ha sposato Ginevra dalla quale ha avuto un figlio, Ciro appunto, che come spesso si crede, doveva sistemare un matrimonio fallito già in partenza. Ma a Ginevra non basta un uomo come Episcopus e si rifugia in Vanzer, l’amante che frequenta apertamente la sua casa e a cui Episcopus “pulisce le scarpe mentre aspetta fuori dalla porta che finiscano i loro giochetti”. Tutto avrebbe sopportato Il mite e mediocre Episcopus, ma non che Vanzer potesse “toccare” il figlio. Tutto ma non quello. E un coltello, in un giorno che segnerà la loro storia, spegne l’arroganza di quell’amante cafone e violento.

La storia è questa. Ma voi non pensate che basti leggerla.

Antonello è Episcopus. La sua calma lucidità mentre parla con il figlio che gli chiede di riavere le sue scarpe, le sue allucinazioni mentre lo guarda al centro della stanza dove tutte le notti va a cercarlo, i suoi scatti d’ira mentre scaglia a terra quelle scarpe che sono il suo ultimo legame con Ciro e anche la condanna dei suoi ricordi.

La delicatezza con cui cerca di raccontare gli ultimi giorni di quella malattia che gli ha strappato via quel respiro bambino che giustificava il suo respiro appesantito dall’alcool e subito dopo quel passo militare esasperato, mentre pronuncia “quel nome di merda”, Vanzer, che sa di tedesco, di marcia, di sopruso, di abuso. Non c’è sentimento che prova che non arrivi a noi vero, diretto, vissuto. Completamente suo.

All’improvviso tutto si spegne, come forse si era spento il cervello in quella sera in cui prese il coltello e interruppe quella marcia di un Vanzer qualunque che aveva calpestato la sua vita. Il buio totale e lui che impugna due pile che diventano solo occhi per lui mentre ce le punta addosso e noi siamo alla sua mercè.

La voce è forte e decisa mentre ricorda la scena del delitto. Un pianoforte in sottofondo sottolinea tutto. “I morti tornano sempre”. È rabbia? È Follia? Ora una luce è puntata su un Vanzer che non vediamo e l’altra è rivolta al suo volto sudato e stravolto. Il piano ora corre velocissimo a rincorrere note che sembrano voler scappare loro stesse da quel luogo di terrore. La musica è sempre vitale, necessaria.

Antonello sa il peso a cui ci condanna e ci lancia un’ancora di salvataggio. Ed è Ginevra – Filomena.

Dal suo altare lei canta. Non c’è musica che l’accompagna, il pianoforte tornerà ma non adesso, non con lei. Una voce forte e delicata al tempo stesso, una sonorità che quasi confondi; non sai se è di chiesa o popolare. Le parole arrivano quasi indistinte, “Indifferentemente” è sicuramente uno dei testi, ma non contano. Conta quello che ci mette dentro, che ci travolge e mentre restiamo incantati da quella voce lenta che accompagna movimenti altrettanto lenti, Episcopus si è rimesso in ordine. I pantaloni tirati giù, la camicia sistemata e la giacca e la cravatta a completare una figura che ha necessità di “presentarsi bene” al pubblico televisivo a cui racconterà la sua tremenda storia di assassino e di vittima.

Come fare a raccontarvi le sue espressioni davanti a quel leggio? Sistemato sotto due mini riflettori, racconta tutto l’imbarazzo di un momento di celebrità che non ha cercato e che non sa gestire.

Il suo colloquio con una regia che lo guida, la sua attesa dello stacco pubblicitario, le sue scuse per non aver letto con i tempi giusti, le sue mani che continuano a stropicciare quella giacca a cui sembra quasi appendersi per mantenersi in piedi mentre asciugano il suo sudore, il suo imbarazzo. Noi li raccogliamo e ce li dobbiamo mettere in borsa, perché nelle mani non ci stanno.

In quella storia letta ma vissuta c’è il dramma dell’uomo, del marito, del padre. Di chi si è “accusato di aver vissuto oltre la vita del figlio”.

Quando si spengono i riflettori, per i telespettatori la storia finisce, ma il dramma, per chi lo vive, non si interrompe mai.

Via la giacca, la camicia di nuovo trasandata…

La donna riprende voce e si incammina verso di noi: Amare e o bene…

Ed Episcopus continua i suoi ragionamenti con Ciro. Ciro che non lo lascia dormire ormai da anni, Ciro che gli chiede ogni notte di rileggere quella stessa storia, quello stesso momento in cui ha impugnato il coltello e ha messo fine ad una vita e ha compromesso quella di molti altri. Ma la forza di rivivere per l’ennesima volta quella tragedia, viene a mancare. L’uomo si ribella a quella estenuante richiesta, scaglia via il libro e si avvicina a quella coperta che noi abbiamo immaginato buttata lì per caso. La getta via, ma in realtà scopre cosa stesse nascondendo: un crocifisso!

Non le ho le parole per raccontarvi questa scoperta. Andate a viverla di persona.

Un crocifisso a misura d’uomo, appoggiato con cura sopra un altro lenzuolo bianco che ne segue precisamente la forma, con tutte le pieghe che meticolosamente sono servite per regalargli quella sagoma, nell’estrema precisione che i folli hanno nel fare le loro cose.

20170714_220946E il discorso continua, finalmente Ciro riavrà le sue scarpe. E quando quell’ultimo simbolico gesto è compiuto, l’abbraccio di Episcopus a quel legno vivo, lo crocifigge con lo stesso destino. Gli uomini sono puniti dal loro stesso peccato.

Il piano ha capito il momento, ha sentito che i respiri erano interrotti e ha rallentato il ritmo…

Quando Filomena e Pasquale Petrosino, che cura l’organizzazione, si avvicinano ad Antonello, sono gli applausi che non finiscono più.

Sono gli applausi per loro, per la genialità di quest’uomo, per l’umiltà di Filomena, per l’emozione di Pasquale che sembra non aver parole e sono per noi, per ricomporre pezzi di mente e di cuore che sono stati frullati dalla mente di un grande, grandissimo interprete del teatro del nostro tempo: Antonello De Rosa.

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